Recensione Una vita tranquilla (2010)

Tra le ombre di un rapporto padre-figlio, un cupo intreccio di amicizia, cronaca e vendetta e le gelide atmosfere della Germania. 'Una vita tranquilla' ci trascina con un ritmo esplosivo mentre gli sguardi e il talento di Toni Servillo e del giovane duo D'Amore-Di Leva ci ricordano che il nuovo cinema realistico italiano gode di ottima salute.

Le conseguenze del crimine

Germania ai giorni nostri. Rosario è uno chef italiano che si è fatto un nome col suo ristorante, dove si pente di aver dato lavoro agli italiani, di cui non ci si può fidare, e ha messo su famiglia con una bella donna tedesca che gli ha dato un figlio che assomiglia al Piccolo Lord. La sua quotidianità scorre serenamente tra gli screzi giocosi con i dipendenti e qualche attacco di gelosia coniugale della moglie un po' ossessiva. Un giorno, quando Rosario si vede arrivare improvvisamente il figlio Diego a casa, l'uomo mette in stand by la sua vita per dedicarsi completamente a lui, che aveva abbandonato a Napoli anni prima. Diego però non è da solo ma con Eduardo, un "collega" dalla testa calda che a Rosario desta subito sospetto. L'uomo decide di tenere d'occhio i due e scopre che sono invischiati con la camorra: da quel momento la sua vita tranquilla cede il passo al terrore che la sua falsa identità venga messa a repentaglio e che l'oscuro passato, che l'aveva costretto a fuggire dalla sua città e a darsi per morto, riemerga pericolosamente.


Si sviluppa esattamente come l'immagine di apertura il noir europeo Una vita tranquilla, diretto dal sorprendente Claudio Cupellini: vediamo un fotogramma che non è subito chiaro, ma si rivela allo sguardo con una messa a fuoco progressiva. Le grinze inquadrate sono quelle della corteccia di un albero. L'obiettivo si allarga e scopre lo spazio di un intero bosco, una distesa verde in cui un uomo dà la caccia ai cinghiali a sangue freddo e uccide gli alberi scomodi coi chiodi arrugginiti. Dal particolare al generale la regia si focalizza sui dettagli per poi mostrarci lentamente, in un crescendo ritmico che esplode all'estremo, la storia in tutta la sua complessità. La sceneggiatura, scritta dal regista insieme ai bravi Filippo Gravino e Guido Iuculiano, è impeccabile: concilia il genere del thriller dalle atmosfere noir, che in alcuni momenti omaggiano perfino Hitchcock, al gangster movie con tre protagonisti dalle identità al limite dell'umanità, il ritratto di famiglia apparentemente lindo alla cronaca degli affari sporchi sepolti sotto le maschere linguistiche. Rosario non è solo il cuoco popolare che parla in tedesco con moglie e clienti, in italiano coi dipendenti stranieri e in napoletano negli sfoghi nevrotici. L'uomo è anche un ex killer della camorra campana, Antonio De Martino, un pregiudicato senza alcuna pietà, dalla mente poco lucida e dall'istinto animalesco che ha lasciato Napoli per non far ammazzare se stesso e la sua famiglia. Ma un passato fatto di ombre, misfatti macchiati di sangue e legami malavitosi non si può nascondere a lungo dietro una nuova identità: basta la paura di un tradimento perfino familiare per risvegliare la coscienza sporca e trascinarla in un altro torbido incubo.

E' un film perfettamente geometrico Una vita tranquilla in cui ogni singolo elemento s'incastra nella trama più profonda per far affiorare in superficie un'opera intensa e singolare. Le battute e i dialoghi anticipano con puntualità gli avvenimenti disarmanti, disseminati per lo spettatore lungo la narrazione come flash significativi e ombre velate che indicano la strada tortuosa verso il labirinto angoscioso e infernale dei protagonisti. Le immagini ci consegnano su sfondi asettici come camere iperbariche intrecci tematici classici ma contaminati: il rapporto padre-figlio e la relazione tra due fratellastri si snodano attraverso incroci di sguardi allusivi, imponenti espressioni facciali e distanze corporee che fanno della fisicità di attori come il marmoreo Toni Servillo (Rosario) e il promettente Marco D'Amore (Diego), giovane leva del cinema di nuova generazione, segni incisivi e potenti nell'economia del testo. Alla duplice storia familiare il film associa reticoli ancora più cupi: l'amicizia tra Diego ed Eduardo - il bravo Francesco Di Leva - e la vendetta si mescolano nel vortice dell'incarognito slang napoletano, che intrappola nell'incomprensione verbale il senso della cronaca. Ma i riferimenti non si dilatano nell'indagine e accennano senza i soliti pigli didascalici alla scandalosa faccenda della monnezza partenopea. Nel solco di queste cupe intersezioni si staglia una conturbante metafora, quella tra i rifiuti chimici, smaltiti all'estero per ragioni economiche e politiche, e i relitti umani che una giustizia naturale prima o poi conduce alla pena meritata. Proprio come succedeva agli antieroi degli straordinari Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone, capisaldi del nuovo realismo italiano ai quali adesso si può aggiungere Una vita tranquilla.