Recensione Woody (2012)

Non un documentario che possa fare nuova luce sugli aspetti più controversi o segreti del regista newyorchese, ma un viaggio nel suo passato e nella sua carriera che piacerà ai fan di vecchia e nuova data, sopratutto per i molti aneddoti curiosi e la grande (auto)ironia sempre presente.

To Woody with Love

Trasmesso originariamente sul canale PBS, poi immesso sul mercato homevideo statunitense come film da tre ore e parte integrante del progetto American Masters, Woody di Robert Weide viene presentato al Festival de Cannes nella versione cinematografica da 110 minuti, la stessa che arriverà nelle sale di tutto il mondo, Italia compresa grazie a BIM. I tagli ovviamente si sentono ed influiscono in particolare sull'aspetto privato del regista newyorchese piuttosto che su quello cinematografico e relativo alla sua carriera, ad esempio nella versione ridotta trovano molto meno spazio la sorella Letty Aronson con i suoi aneddoti e non vi è quasi nessun accenno alla sua passione per il jazz ed il clarinetto, mentre nella versione integrale sono presenti perfino lunghi spezzoni di concerti.


In entrambe le versioni però è evidente un certo squilibrio tra la prima e la seconda metà del film, con una maggiore attenzione verso il Woody Allen degli esordi e quasi un salto a piè pari dai primi anni '90 di Pallottole su Broadway ai due grandi successi degli ultimi anni, Match Point e Midnight in Paris. E' certamente una scelta in parte obbligata per un autore che ha fatto della prolificità quasi un marchio, ma è anche una sorta di dichiarazione di amore da parte di Weide, quasi a voler nascondere il periodo meno fortunato di Allen e proteggerlo dall'occhio critico dei suoi spettatori.

Quella che invece viene ben documentata è l'infanzia di Allan Stewart Konigsberg, di quel ragazzino che, mentre ancora a scuola, decise di scrivere sotto lo pseudonimo di Woody Allen battute divertenti e mandarle a quotidiani e riviste, finendo per essere così notato da grandi comici che arrivarono a commissionargli, nonostante la giovanissima età, fino a 50 freddure al giorno. Il racconto prosegue poi con i primi anni da stand up comedian, un ruolo che ad Allen è sempre stato stretto e particolarmente sgradito, soprattutto a causa della sua leggendaria timidezza: furono i suoi agenti a convincerlo, forzandogli a volte la mano e portandolo sempre più spesso non solo sul palco ma soprattutto in TV come ospite più o meno fisso di celebri show degli anni '60; gli agenti raggiunsero bene presto il loro scopo, Woody divenne ben presto onnipresente, e fece innamorare l'America con un misto di comicità arguta ed esplosiva, spesso improvvisata, e di gag slapstick, finendo addirittura a sfidare sul ring di pugilato un canguro con tanto di guantoni.

Sul fronte cinematografico le cose più interessanti vengono fuori analizzando il processo creativo di Allen, ed è lo stesso regista a mostrarci i suoi segreti, dalla macchina da scrivere che usa fin dalla prima sceneggiatura al mucchio di appunti per nuovi soggetti da cui sceglie ogni qual volta deve iniziare un nuovo film. E' affascinante anche capire come sia stato possibile per un regista esordiente ricevere dalla produzione il final cut fin dalla prima opera o anche l'atteggiamento che tiene sul set verso gli attori più perfezionisti, a cui risponde "No, inutile rifarla, va bene così, e poi devo correre a casa a vedere i Knicks!".

Il motivo per cui questo Woody non diventa mai un grande documentario è lo stesso che abbiamo analizzato nell'altro documentario visto a Cannes, Roman Polanski: A Film Memoir: il troppo amore da parte di chi intervista o comunque documenta, può portare a scoprire aneddotti divertenti e anche emozionanti, ma non potrà mai sviscerare realmente una persona. Anche qui manca infatti un po' di coraggio nel fare le domande più scomode e sconvenienti, tutta la vicenda Mia Farrow/Soon-Yi avrebbe meritato ben più spazio così come l'amore con Diane Keaton, ma Weide non osa e Woody di suo si limita davvero al minimo indispensabile. Non particolarmente illuminanti nemmeno le tante interviste di amici e colleghi, anche se la presenza di Scarlett Johansson, Penelope Cruz, Naomi Watts, Josh Brolin, Sean Penn, Martin Scorsese, Mariel Hemingway, Dianne Wiest, la stessa Keaton e tanti altri di certo rendono la visione più piacevole.

Per il resto rimane la conferma delle tante doti di un personaggio fuori dal comune, ma anche dei suoi tanti difetti: la timidezza, la freddezza, l'esagerata modestia e sopratutto il pessimismo cosmico, tutti elementi presenti nel film, nonostante il tono celebrativo, dall'inizio alla fine. Ma per fortuna c'è anche tanta della sua celebre (auto)ironia, e anche se non è esattamente come rivedere uno dei suoi tanti capolavori c'è abbastanza da accontentare e far immalinconire anche il più disincantato dei fan.

Movieplayer.it

3.0/5