Recensione The Possession (2012)

Rispetto al filone demoniaco basato sulla tradizione dell'esorcismo cattolico, The Possession opera un vero e proprio scarto, decidendo di ispirarsi alla cultura ebraica e alle leggende sugli spiriti dybbuk. Tuttavia, l'horror di Bornedal tradisce comunque un marcato riferimento al capostipite di William Friedkin per quel che concerne l'impostazione complessiva del film.

Non aprite quella scatola

La settima arte ha nutrito da sempre una particolare fascinazione per la figura demoniaca, rappresentata sullo schermo sin dalle origini del cinema con le prime trasposizioni del Faust e dell'Inferno dantesco e con classici di culto come Pagine dal libro di Satana (1920) e La stregoneria attraverso i secoli (1922). Ma è soltanto con film come L'esorcista (1973) di William Friedkin, Rosemary's Baby - Nastro rosso a New York (1968) di Roman Polanski e Il presagio (1976) di Richard Donner che l'elemento diabolico viene calato più compiutamente all'interno del genere horror, dando vita a un vero e proprio filone di opere che riflettono in maniera inquietante sul concetto di male, associandolo in modo destabilizzante a soggetti per definizione innocenti come i bambini.
In particolare il capolavoro di Friedkin costituisce un punto di riferimento imprescindibile, quasi un testo da manuale, cui si sono inevitabilmente rifatti tutti i successivi titoli che hanno affrontato la materia satanica. Un tema che sembra essere tornato nuovamente di moda, a giudicare dal notevole numero di horror recenti incentrati sulle possessioni demoniache, che aggiornano l'immaginario esorcistico degli anni Settanta con nuovi filoni nel frattempo divenuti di tendenza, tra cui il mockumentary stile The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair e gli horror giapponesi incentrati su maledizioni e con protagonisti donne spettro o fantasmi bambini. Nel nuovo Millennio escono così, con esiti alterni, oltre a vari remake e prequel dei capostipiti L'esorcista e Omen, nuovi film che si muovono sul versante del realismo, come The Exorcism of Emily Rose (2005) e più recentemente gli pseudo-documentari Rec 2 (2009), L'ultimo esorcismo (2010) e L'altra faccia del diavolo (2012); senza contare altre opere dall'impianto più tradizionale come Il rito (2011) e rivisitazioni bizzarre come Devil (2010).


Rispetto a questo sottogenere, che si nutre dell'immaginario demoniaco di provenienza cattolica, segna uno scarto il campione d'incassi ai botteghini americani The Possession, che decide invece di ispirarsi a quello molto meno noto del folklore yiddish. Protagonista di questo horror diretto da Ole Bornedal e prodotto dalla Ghost House di Sam Raimi è, infatti, un dybbuk, ovvero uno spirito malevolo appartenente alla tradizione ebraica che si impossessa delle persone con cui viene a contatto. Per la precisione si tratta in questo caso di Abyzou, "La ladra di bambini", sorta di demone femminile che perseguita in particolare le anime innocenti. Lo spunto del soggetto proviene, a quanto pare, da una notizia curiosa, che ha anche ispirato un articolo del Los Angeles Times: nel 2004 un uomo ha pubblicato una strana inserzione su E-bay, nella quale metteva all'asta la scatola in cui era contenuta un dybbuk, responsabile a suo dire di una lunga serie di maledizioni e catastrofi. La sceneggiatura elaborata da Juliet Snowden e Stiles White è incentrata proprio su questa fantomatica scatola malefica, di cui entra per caso in possesso Emily (Natasha Calis), ragazzina destabilizzata dalla recente separazione dei propri genitori. La madre Stephanie (Kyra Sedgwick) e il padre Clyde (Jeffrey Dean Morgan) si accorgono delle stranezze comportamentali della loro figlia più piccola, ma inizialmente pensano che siano dovute alla loro crisi coniugale. Solo in seguito, quando le reazioni di Emily diventano sempre più violente e schizofreniche, Clyde scopre l'esistenza del dybbuk e decide di rivolgersi a una sorta di esorcista israelitico, il rabbino chassidico Tzadok (interpretato dal musicista ebreo Matisyahu).

Nonostante il cambiamento di prospettiva culturale e religiosa, in realtà The Possession non riesce ad attuare in parallelo un rinnovamento anche per quel che concerne lo svolgimento dell'intreccio, che pare piuttosto seguire in maniera pedissequa tutti i passaggi del precursore di Friedkin (guarda caso anch'esso incentrato su una famiglia separata), con non poche riproposizioni di sequenze ormai divenute dei veri e propri cliché, incuso un abusato finale. Il regista danese Bornedal, noto soprattutto per Il guardiano di notte e per il suo remake americano Nightwatch, si dimostra incerto sulla strada da perseguire, incapace di approfondire diversi aspetti della trama che sarebbero potuti risultare interessanti, tra cui il ricorso alla possessione come metafora della spersonalizzazione causata dallo sgretolamento del nucleo familiare, oppure l'approfondimento antropologico dedicato alla comunità ebraica, che alla fine rimane solamente sullo sfondo. In questo modo si punta sulla componente puramente di genere, ma anche in questo caso il risultato è piuttosto deludente: alcune sequenze che in mano a un regista come Raimi sarebbero risultate volutamente grottesche, qui finiscono per suscitare solo il ridicolo involontario. Non che Bornedal non si dimostri capace di qualche guizzo registico, in particolare nella prima parte del film, e gli va anche dato atto di aver saputo costruire alcune situazioni angosciose e stranianti sfruttando oggetti inconsueti come per l'appunto la scatola, oppure una frotta di falene. Alcune immagini davvero inquietanti e l'impressionante performance della piccola indemoniata Natasha Calis non bastano però a salvare The Possession dal limbo di film che ricalcano senza particolare inventiva l'orma dell'inarrivabile precursore di Friedkin.