Recensione Quod Erat Demonstrandum (2013)

Con un elegante bianco e nero, e una regia votata all'essenzialità, il film di Andrei Gruzsniczki racconta l'impatto esercitato da un regime oppressivo sulla vita di uno dei suoi cittadini, ma anche su quelle di coloro che gli vengono messi contro.

Quotidianità violate

Romania, 1984. Sorin Parvu è un brillante matematico, professore universitario, che è riuscito a pubblicare un articolo riguardante una sua innovativa teoria, su una prestigiosa rivista americana. Quando le autorità del regime di Ceausescu vengono a sapere della pubblicazione, effettuata senza il loro visto preventivo, decidono di mettere l'uomo sotto sorveglianza, costruendogli intorno una fitta rete di raccolta di informazioni. Tutta la vita del matematico viene passata al setaccio, il suo telefono messo sotto controllo, i suoi conoscenti sollecitati a fornire qualsiasi notizia che potrebbe rivelarne la collusione col blocco occidentale. La pressione si concentra soprattutto su Elena, amica ed ex fiamma dell'uomo, il cui marito è emigrato in Francia per poi decidere di stabilirvisi: la donna sta cercando in tutti i modi di ottenere il visto per ricongiungersi col marito, e l'occasione le si presenta quando Sorin le chiede di far arrivare fuori dai confini dei documenti, contenenti un ulteriore, fondamentale approfondimento dei suoi studi. La voglia, da parte di Elena, di riabbracciare suo marito, e di lasciare un paese che non è in grado di offrire un futuro a lei e a suo figlio, dovrà scontrarsi con la necessità di tradire il suo amico...

Ha ancora senso, nel 2013, raccontare al cinema la difficile realtà dei regimi dell'Est Europa, e descrivere l'impatto che il loro totalitarismo ha avuto sulla vita di milioni di cittadini? Se il cinema, tra i suoi scopi, ha anche quello di tenere viva la memoria, e di offrire, attraverso il racconto del passato, una lente per guardare il presente, la risposta affermativa è scontata. Ciò nonostante, Quod Erat Demonstrandum presenta una narrazione, e dei temi di base, che molti spettatori riconosceranno per averli incontrati in altre pellicole: il riferimento più scontato è il recente Le vite degli altri, che raccontava un'analoga vicenda ambientata nella Germania dell'Est; ma viene in mente anche (passando dall'altra parte della cortina di ferro) il più vecchio Indiziato di reato di Irwin Winkler (1991), che narrava il non meno drammatico periodo del maccartismo, anch'esso contrassegnato dalla stretta sorveglianza sulla vita privata dei cittadini, e dalla logica dello spionaggio interno. Il film di Andrei Gruzsniczki, in realtà, si rivela molto più minimalista, e meno ammiccante al pubblico, rispetto agli esempi sopra citati: l'elegante bianco e nero scelto dal regista, in questo senso, è un preciso indizio della direzione che il film vuole prendere. La morsa che si stringe intorno al protagonista (l'ottimo Sorin Leoveanu) è narrata con una costante sottrazione emotiva, che sceglie di mostrare, innanzitutto, il lato burocratico del lavoro di sorveglianza: l'ispettore di polizia interpretato da Lucian Ifrim appare più un annoiato (e tutt'altro che fervente) burocrate, che l'esponente di un regime spietatamente oppressivo.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, controlla attentamente i toni, evitando qualsiasi enfasi e narrando quella "zona grigia" di presentabilità, di legalismo burocratico e di formale perseguimento della sicurezza interna, che sono elementi fondamentali di qualsiasi regime totalitario. Il bianco e nero della fotografia sembra simboleggiare, di fatto, quelle diverse tonalità di grigio che ogni personaggio esprime: si fa fatica anche a riconoscere come "eroe" un protagonista dal fare freddo e calcolatore, interamente votato al suo lavoro e poco attento ai rapporti familiari e di amicizia; mentre, dall'altra parte, lo script si guarda bene dall'esprimere una semplicistica condanna nei confronti di nemici e accusatori, tra i quali il già ricordato ispettore di polizia, e la "spia" interpretata da Ofelia Popii. Proprio quest'ultima, dopo il protagonista, si rivela il personaggio sul quale la sceneggiatura insiste maggiormente, mettendone in luce l'emotività e il fare umano e istintivo, perfetto contraltare alla freddezza messa in mostra dal matematico. Il tono minimale del film si traduce anche in una regia tutta votata all'essenzialità, che evidenzia bene, con un incedere sottile ma inesorabile, la morsa che lentamente si stringe intorno al protagonista. Un rigore che alla fine si rivela efficace, offrendo l'affresco di una quotidianità il cui carattere perverso ben si maschera sotto le sembianze di una (molto) apparente normalità.

Movieplayer.it

3.0/5