Recensione Il principe abusivo (2013)

Gli elementi della commedia classica, confrontandosi con la gestualità e il linguaggio partenopeo, trasformano la naturale spontaneità napoletana in una sorta di esagerazione pittoresca, relegando i personaggi interessati nella nicchia della farsa.

Once Upon a Time

C'era una volta, in un regno lontano lontano, una principessa bionda ed elegante il cui unico cruccio nella vita era di non riuscire a conquistare le prime pagine dei giornali come accaduto, invece, alla nonna e alla madre prima di lei. Il suo desiderio di fama, però, non è dettato da ambizioni o da vanità personale, quanto dalla voglia di raccogliere sempre più fondi per le sue attività benefiche ignorate dal jet set internazionale. Come diventare, dunque, la regina indiscussa dei rotocalchi attirando l'attenzione e la curiosità di parrucchieri e casalinghe? Questa è il quesito sempre più pressante che percorre i corridoi del castello fino a quando il Gran Ciambellano non fornisce adeguata risposta architettando un piano infallibile sostenuto da attenta ricerca di mercato. La soluzione è semplice e immediata: perché l'uomo qualunque si accorga della dolce Letizia è necessario che la principessa si innamori di un povero. E' comprovato che nulla genera clamore come lo scandalo e l'immedesimazione, per non parlare degli amori impossibili, quindi bisogna rintracciare quanto prima la cavia più adatta per questo esperimento "romantico". La scelta cade su Antonio, ragazzo dei bassi di Napoli dalla capigliatura esuberante e dai modi "pittoreschi" che, dopo una vita impegnata ad affinare le sue tecniche di scrocco, cade nella trappola seduttiva di Letizia e viene trasferito a palazzo per dare il via alla farsa. Ma spesso anche i piani migliori devono cedere di fronte a degli imprevisti, come la faticosa trasformazione di un cafone in gentiluomo e il nascere dell'amore tra uno scroccone di professione e una principessa di nascita.


Nessun genere cinematografico è determinato e caratterizzato dalla provenienza geografica come la commedia italiana. A dimostrarlo è quell'esercito di "toscanacci" che da Mario Monicelli a Roberto Benigni fino a Leonardo Pieraccioni, facendo ovviamente le dovute differenze, hanno fatto sorridere utilizzando pronunce, modi di dire, dialetti e perfino stili di vita ben definiti dalla collocazione regionale. Da meno non è stata la tradizione partenopea che, iniziando da Totò e passando per la melanconica filosofia di Massimo Troisi, ha tentato di arrivare fino a noi più o meno dignitosamente con risultati di vario tipo. Oggi, a rappresentare sul grande schermo questa comicità sempre venata di fatalismo, è, oltre a Vincenzo Salemme, Alessandro Siani, benedetto soprattutto dal successo inaspettato di Benvenuti al Sud e da quello di ritorno di Benvenuti al nord. Fino ad ora le sue interpretazioni sono state caratterizzate da una leggerezza tematica e da una chiara napoletanità espressa nel linguaggio come nella mimica che, pur cercando di avvicinarsi allo stile Troisi, non riesce ad avere la forza espressiva e narrativa per confrontarsi con questo modello. Tutte caratteristiche, queste, che nel suo primo film da regista Il principe abusivo Siani ha cercato di diluire con delle suggestioni prese in prestito direttamente dalla miglior commedia americana d'annata, ottenendo un effetto forse più "contenuto" nei toni ma anche meno personale e diretto.

I riferimenti utilizzanti sono visibili senza alcuna difficoltà: la costruzione di un regno a misura Pincipato di Montecarlo, l'immagine di una bellezza altera che richiama una Grace Kelly appena incoronata, una My Fair Lady tutta al maschile e un Cyrano De Bergerac impegnato nella notte stellata a sussurrare versi di Prévert mascherato da cespuglio di rose. Elementi che, però, confrontandosi con la gestualità e il linguaggio partenopeo, trasformano la naturale spontaneità napoletana in una sorta di esagerazione pittoresca, relegando i personaggi interessati nella nicchia della farsa. Inoltre, a causa di questo incontro non propriamente felice, il film sembra diviso in due parti diverse incapaci di completarsi o esprimere pienamente i rispettivi stili cinematografici. Unico elemento d'unione in grado di armonizzare l'insieme è Christian De Sica, perfetto in un ruolo di supporto in cui, non dovendo assumersi la responsabilità di un successo al botteghino a tutti i costi, si rilassa, prende fiato mostrando il volto di un attore poliedrico che non disdegna di mettere in scena i segreti di un mestiere appreso fin dalla nascita, non fosse altro che per essere il figlio di Vittorio De Sica.

Movieplayer.it

2.0/5