L'ossessione per il contagio al cinema, tra orrore e fantascienza

Se catastrofi, distruzioni e virus letali sono da sempre tema centrale del cinema fantastico, mai come negli ultimi anni, la paranoia per i pericoli della contaminazione influenzano la produzione horror e post-apocalittica. E la distruzione comincia a perdere il carattere di catarsi spettacolare per diventare progressivamente una delle possibili soluzioni, ineluttabile perfino per le rassicuranti penne del cinema mainstream.

"Il rischio divora e trasforma tutto. Non è la catastrofe, ma l'anticipazione della catastrofe. E' esistente e non esistente, presente e assente, incerto e sospetto. Il nuovo mastice dell'occidente e del mondo":
(Ulrich Beck da Conditio Humana, il rischio nell'età Globale)

"Come in tutte le epidemie la perdita di tante vite umane è iniziata da un semplice microscopico organismo. Non c'è una logica. Un virus non sceglie un'ora o un luogo. Un virus non ha sentimenti. Arriva e uccide."
(Malcolm McDowell in Doomsday)

Due citazioni, mai tanto distanti per obiettivi, profondità e provenienza ma entrambi pregnanti nel veicolare un'immagine oscura del futuro. La prima viene da un noto sociologo tedesco, che nel 1986 pubblicava il classico La società del rischio e che due anni fa ha esteso le sue riflessioni al mondo globale. La seconda è il più tipico degli incipit ad effetto del genere cinematografico che da sempre racconta le derive catastrofiche dell'umanità: la fantascienza post-apocalittica. Il genere stesso è il risultato di un'idea del mondo fallimentare. Mai come adesso però il confine tra le due suggestioni si assottiglia, in una contemporaneità angosciata dai temi ambientali, militari e dai pericoli che minano la sicurezza sociale.

In tema di sicurezza sociale, da qualche anno il cinema sta sposando l'idea del virus. Sia come risultato di esperimenti medici, sia come contagio risultante dall'abuso chimico in altri campi, specie quello militare. Per quanto il cinema da sempre racconti la distruzione - il cataclisma d'altronde è intrinsecamente cinematografico perché sposa la natura spettacolare e fragorosa del cinema - ciò che segna la differenza degli ultimi anni, con una speciale e determinante attenzione in Inghilterra, è il clima di autentica paranoia per il fenomeno, che generi come l'horror e la fantascienza hanno subito cavalcato.
Già nel dittico 28 giorni dopo - 28 settimane dopo la natura politica del virus appare chiara; Danny Boyle prima e Juan Carlos Fresnadillo dopo affrontano l'argomento con durezza, non accantonando mai il clima di preoccupazione sociale attraverso pratiche conciliatorie o umoristiche. A guadagnarne è stato lo spessore teorico del genere e la sua spinta autoriale, dopo un quindicennio (almeno) di spaesamento assoluto. D'altronde se il film di Boyle soprattutto pesca a piene mani nel cinema dei morti viventi degli anni '80, è altrettanto chiaro che selezioni come modello Il Giorno degli Zombi di Romero (all'interno di un panorama ricco, ma anche saturo di opere derivative e costantemente alla ricerca dello humor nero).
Dichiarazione di intenti della volontà di confrontarsi con il tema del virus, senza utilizzarlo come mero pretesto narrativo per mettere in moto la meccanica dell'assedio e della carneficina. Come fa invece la miniserie televisiva inglese Dead Set, dove durante la puntata finale dell'ennesima edizione del Big Brother inglese si diffonde un'epidemia che trasforma i morti in zombie. Ma qui a segnalarsi è il fatto che il tema del contagio ha intaccato perfino la televisione e il capo di accusa è ovviamente il reality show più noto in assoluto. A chiudere il cerchio, almeno nel contesto del nostro discorso arriva Doomsday di Neil Marshall. Film indubbiamente fracassone e ridondante (senza essere però la stupida centrifuga di suggestioni post-apocalittiche debitrice a 1997: fuga da New York come quasi tutti hanno sentenziato) che seppur privo dell'intento riflessivo di altre opere, mostra un significativo slittamento dai modelli originali, proprio verso un'idea di futuro non dominata dalle macchine o dall'immanente pericolo bellico, ma soprattutto dalla contaminazione.

L'America non sfugge al fenomeno, e dopo interessanti ibridi come Pontypool (in realtà canadese, dove il virus deriva dal linguaggio) e alcune escursioni anche in tv, su tutti il caso di 24, anche Hollywood si gioca le sue carte con il prossimo film di Steven Soderbergh dall'inequivocabile titolo Contagion. La fantascienza non sembra invece accogliere il tema del virus quanto ci si aspetterebbe e per lo più lo utilizza in termini di immaginario di desolazione e distruzione come in Io sono leggenda, dimostrando come lo sci-fi sia sempre più un contenitore sfarzoso e sintetico ma molto avaro di contenuti forti. Anche il thriller, da sempre il genere americano più attento a ciò che corrode il mondo reale, si confronta con il tema, mentre l'horror, altrove bacino preferenziale, continua generalmente a impantanarsi nel torture-porn, o in un'idea astratta e facile di paura, lontana dal sociale e riluttante a voler raccontare l'America nascosta, come faceva mirabilmente qualche decade fa. Ovviamente in un panorama cosi ricco e variegato c'è spazio per le eccezioni, ma a mancare è un'idea forte sul tema e il clima di paranoia sociale prende spesso le pieghe della follia personale, come in Bug - La paranoia è contagiosa di William Friedkin, dove l'ossessione del contagio è il risultato della psiche deviata del protagonista, a causa di avvenimenti accaduti in guerra. Ma il film di Friedkin è altrettanto importante perché ci dimostra come in America sia sempre il tema militare l'input determinante per un horror sociale. E' lì che albergano gli incubi più stranianti del cinema americano, come tutta la produzione degli ultimi anni dimostra.

La mediazione arriva ancora una volta dal remake, pratica dilagante certamente senza freni e inibizioni, sulla quale però sarebbe necessario cominciare a rivedere gli inquadramenti teorici. Perché filtra, centrifuga, seleziona e semplifica l'inesauribile immaginario prodotto dal cinema passato o dal cinema recente off-Hollywood, in una sintesi, che al di là dei risultati, racconta il mondo contemporaneo in modo sempre più oscuro. Segni che la distruzione comincia a perdere il carattere di catarsi spettacolare per diventare progressivamente una delle possibili soluzioni. Anche per il pubblico di blockbuster. Se la cosa ha ben poco valore in Quarantena, remake-fotocopia dello spagnolo Rec, che racconta ancora una volta il diffondersi di un fantomatico virus, puro escamotage per il finto cinema verità che tanto spaventa, ben altro valore, ha nel nostro contesto, La città verrà distrutta all'alba. Ancora una volta è il cinema di Romero, autore del film originale, a fare da apripista, catapultandoci nella piccola Ogden Marsh, una cittadina dell'Iowa, dove la perdita di un'arma biologica nell'acqua potabile mette in moto un virus che trasforma gli abitanti in una sorta di zombie violenti. Rifacimento mediamente fedele, La città verrà distrutta all'alba si presenta come un robusto horror di grana grossa, con un ricercato gusto visivo e una grammatica elementare, di efficacia trasversale, attraverso la quale viene raccontata la violenza repressiva dell'apparato militare e soprattutto l'ineluttabilità del disastro. Perché la catastrofe sembra diventare inevitabile perfino per le rassicuranti penne del cinema mainstream.