Gabriele Muccino svela quello che sa sull'amore... e Hollywood

Dopo le critiche ricevute dalla stampa americana e l'indifferenza di un pubblico che lo ha sempre premiato, il regista romano presenta il suo ultimo film, sperando in una accoglienza più calorosa da parte degli spettatori italiani

In Italia gli esperti del settore non gli hanno mai risparmiato critiche aspre e, spesso, prevenute. Sarà per questo che, dopo L'ultimo bacio e Ricordati di me, Gabriele Muccino ha deciso di cedere alle lusinghe americane, volando ad Hollywood nella speranza di trovare il terreno adatto per far crescere i suoi progetti. E, all'inizio di questa avventura a stelle e strisce, tutto sembrava andare per il meglio. A dimostrarlo è stata l'amicizia e la fiducia ottenute da un attore come Will Smith, felice di mettersi nelle mani del regista romano per due vicende di riscatto personale. Ma anche le storie d'amore più appassionate sembrano destinate a finire. Così, nonostante il favore e il sostegno ottenuto dal pubblico americano grazie a La ricerca della felicità e Sette anime, Muccino si trova oggi a dover affrontare l'arrivo di una serie di commenti negativi a causa del suo terzo film in lingua inglese Quello che so sull'amore con Gerard Butler, Jessica Biel, Dennis Quaid, Catherine Zeta-Jones e Uma Thurman. Distribuita in Italia da Medusa dal 10 gennaio in 450 copie, questa commedia romantica costruita intorno al personaggio dell'ex campione di football George Dryer, tornato dal Canada per riconquistare l'ex moglie e il figlio di sei anni, ha risentito probabilmente di un controllo eccessivo da parte delle major che sembrano aver imposto al regista stile e struttura narrativa. A questo punto, è naturale chiedersi se l'american dream di Muccino si sia definitivamente avviato sul viale del tramonto o se il regista voglia continuare ancora la sua avventura oltreoceano.

Il suo film è frutto di una lunga gestazione in cui l'intervento dei produttori si è fatto sentire notevolmente. A questo punto, considerata anche l'accoglienza poco calorosa che le è stata riservata in America, sente di aver raccontato liberamente la storia che le interessava o crede di essere stato troppo condizionato? Gabriele Muccino: Su quanto accaduto per questo film voglio essere chiaro. Innanzi tutto dobbiamo partire dal concetto inconfutabile che, ad oggi, le così dette commedie romantiche prodotte negli Stati Uniti non hanno più la qualità di Harry, ti presento Sally. Per lo più si tratta di film che non escono sul mercato italiano visto anche il livello medio basso. Questa premessa per dire che, almeno sulla carta, Quello che so sull'amore doveva essere una commedia drammatica destinata a virare irrimediabilmente verso momenti di verità toccanti e commoventi. I problemi, però, non si sono manifestati nella lavorazione, ma sono nati in seno alla fase produttiva e distributiva, quando si è deciso di catalogare la pellicola proprio come commedia romantica. Vivendo da qualche anno nel sistema americano, ho capito che il loro mercato cinematografico ha bisogno di inserire perfettamente un film all'interno di un genere prestabilito. A differenza di quanto accade in Italia, non riescono a gestire, dal punto di vista del marketing, un prodotto ibrido come sono stati La ricerca della felicità e Sette anime. Perché ad essere venduti sono il cast e il genere, mentre il regista ha molta meno importanza. A svelarmi questi segreti, come la necessità di un buon trailer grazie al quale valutare a prima vista un film, è stato Will Smith, che di vendere se stesso e il proprio lavoro se ne intende. Dunque, credo che l'insuccesso del film sia dipeso da una serie di problemi come la produzione di trailer confusi in cui non si comprende di cosa si stia parlando, un manifesto onestamente brutto, la scelta di un titolo che trovo insignificante e, per finire, l'uscita programmata nel weekend storicamente più debole della stagione, ossia quello prima della settimana di Natale in cui tutti sono impegnati nelle ultime compere. E, per finire, un numero spropositato di produttori, ossia tredici, che hanno voluto dire la loro.

Quale storia voleva raccontare veramente? Gabriele Muccino: Volevo che fosse una storia di crescita, un viaggio versa la maturità. Molti di noi hanno più facilità a comportarsi da eterni adolescenti per non doversi mai confrontare con la vita. Oltre i quarant'anni, però, si deve prendere una decisione. La prospettiva è di diventare uomini o rimanere eternamente ragazzi. Nel secondo caso, però, credo che si rischi di invecchiare male e di affrontare una terza età malinconica.

Tornando all'intervento della produzione nella costruzione del film. In che modo ha condizionato il suo lavoro? Gabriele Muccino: Una delle lezioni più importanti che ho imparato da questa esperienza è che, se vuole avere voce in capitolo ed essere rispettato, il regista deve diventare produttore del suo film o averne uno di fiducia pronto a sostenerlo in qualsiasi evenienza. Non mi sono mai reso conto dell'importanza di questo particolare, fino a quando non mi è stato chiesto di tagliare delle scene per lo screen test con il pubblico. Io li ho accontentati senza problemi ma, dopo aver visto il gradimento bassissimo, ho deciso di farne un altro con il materiale al completo. Per ottenere questo semplice diritto ho dovuto fare forza su di me ed alzare la voce. Anche in quel caso, però, pur avendo ottenuto un risultato soddisfacente, il test ha evidenziato come il pubblico non apprezzasse una scena drammatica con Uma Thurman. Si trattava di un momento profondamente intimo in cui il personaggio di Uma, chiusa in bagno con Gerard Butler, sfogava tutta la sua frustrazione di donna e moglie tradita. Il problema era che non rientrava nei canoni del genere, quindi sono stato costretto a tagliarla. Per questo motivo, ho avuto bisogno di un'altra settimana di lavorazione per girare dei momenti che la sostituissero e rendessero il film più omogeneo. In questo modo il film è diventato ciò che loro volevano ma che, nella sostanza, non sarà mai. Certo è che, se avessi avuto accanto a me Will Smith, tutto questo non sarebbe mai accaduto. Will è stato capace di sostenere e difendere il mio lavoro fin dall'inizio, opponendosi anche alle decisioni della Paramount.

In un'intervista lei ha rivelato che anche il finale è stato cambiato, preferendo il classico happy end ad una chiusura più aperta ad interpretazione... Gabriele Muccino: Sì, doveva essere diverso. Secondo me si doveva chiudere con lui che giocava in giardino con il figlio, mentre la moglie li guarda dalla finestra. Un primo piano su Jessica Biel mentre lo saluta e poi il nero. Alla produzione e alla distribuzione, però, non andava bene visto che, secondo la loro opinione, non era sufficientemente chiaro che i due sarebbero ritornati insieme.

Il film è costruito intorno alle vicende personali di George Dryer, ex campione di calcio dalla vita sentimentale e familiare piuttosto vivace. Perché ha scelto questo sport così poco radicato nella cultura americana e qual è il suo rapporto con il calcio? Gabriele Muccino: Il mio rapporto con il calcio equivale a zero. Quel poco che conosco sull'argomento lo devo a mio figlio. In realtà non ho mai avuto passioni sportive. Il film, però, non è sul calcio e vi prego di chiarirlo perché non vorrei che si creasse intorno a questa storia l'ennesima inesattezza. Il fatto che il protagonista sia uno sportivo è puramente accidentale. All'inizio doveva essere un ex campione di baseball, però ci siamo subito resi conto che per il pubblico italiano si tratta di uno sport difficile da comprendere, quindi abbiamo virato sul calcio.

Quanto le è mancato sul set avere un attore come Will Smith, con cui ha instaurato un rapporto di fiducia e amicizia personale? Gabriele Muccino: Certo che ho rimpianto Will, ma questo non vuol dire che non mi sia trovato molto bene con Butler. Anzi, il lavoro con il cast è sicuramente il ricordo migliore di questa esperienza. Tutti sono stati fantastici, professionali e disponibili. Anche la Catherine Zeta-Jones, che è una vera diva, si è dimostrata duttile come un'esordiente. Con Dennis Quaid, poi, siamo rimasti così amici che viene a trovarmi con i figli praticamente tutti i week end. Per quanto riguarda Will, è stato grandioso lavorare con una star di quella potenza e umiltà. Strappandomi dall'Italia per realizzare La ricerca della felicità, è stata una scommessa ambiziosa che ha sostenuto senza tentennamenti. Non se ne trovano tanti così.

Dopo questa esperienza cosa pensa di fare? Crede che valga ancora la pena restare negli Stati Uniti? Gabriele Muccino: Io resto negli States, perché fondamentalmente sono un matto che accetta il rischio di gareggiare contro grandi nomi pur di aggiudicarsi un progetto. Inoltre mi sento un privilegiato perché, fino ad ora, nessun regista italiano è riuscito ad entrare attivamente nel sistema americano e a lavorare con questo. Certo, ancora non comprendo perfettamente la loro cultura che, comunque, mi rimane estranea. Sarà, forse, perché noi siamo più passionali mentre gli americani non urlano mai e riescono anche a divorziare sottovoce. Ci sono delle differenze che devo gestire, ma nessuno mi ha mai stereotipato come regista italiano, anche nelle recensioni più negative. E questo è un grande risultato. Inoltre ho sempre il privilegio di poter tornare indietro in un paese che amo e da un pubblico che mi ha sempre seguito con affetto. Sono cose che mi danno grande forza. Anzi, se non avessi la prospettiva di questa porta aperta dietro le spalle, mi sentirei incredibilmente angosciato.