Recensione Mi chiamano radio (2003)

Un'ottima sceneggiatura e due eccellenti interpretazioni fanno di questo Mi chiamano Radio una piccola sorpresa positiva.

Una storia emozionante

Siamo negli anni 70' in una tipica cittadina di provincia americana nella Carolina del Sud. Non c'è molto da fare per i giovani del posto, tranne che fare sport. James Robert Kennedy, detto Radio (per la sua mania di collezionare vecchie radio usate) gira continuamente con un carrello della spesa, è ritardato ed ignorato da tutti, quando non vittima di scherzi di cattivo gusto. L'allenatore della squadra di football lo prenderà però sotto la sua ala protettiva ed instaurerà con lui uno splendido rapporto, riuscendo a farlo accettare prima dalla squadra e poi dall'intera comunità. Oggi James Robert Kennedy è uno stimato allenatore di basket.

Un'ottima sceneggiatura e due eccellenti interpretazioni fanno di questo Mi chiamano Radio una piccola sorpresa positiva in un panorama di uscite che attualmente non spicca per titoli di grande qualità. La pellicola si situa nella migliore tradizione del cinema di formazione americano, oscillando con sapienza tra l'emozionalità del film sportivo e la struggenza di una storia personale commovente, ma mai estremamente drammatica. A rendere credibile e convincete il tutto, sono decisamente le prove del pluricandidato all'Oscar Ed Harris e del bravissimo Cuba Gooding Jr. (che l'Oscar l'ha preso per Jerry Maguire), entrambi intensi e sufficientemente controllati. Il primo (nella parte del coach), ci fornisce una figura umana piacevole e sufficientemente complessa; il secondo entra si cala a pieno nella parte del ritardato e sorprende, più che per le notevoli capacità mimetiche, per la profondità con cui riesce a comunicare la vulnerabilità emotiva e la vitalità a lungo repressa del suo personaggio.

Il pregio comunque maggiore del film risiede nell'equilibrio della sua scrittura a cui si appoggia la sobria e pulita regia di Michael Tollin. Un equilibrio che gli permette di non cadere negli usuali schematismi ed enfatismi tipici di questo tipo di pellicole, dove, troppo spesso, la realtà è satura di eccessiva drammaturgia ed i personaggi sembrano essere tagliati con l'accetta. Il film di Tollin è invece emozionale senza essere sentimentalistico, delicato ma non zuccheroso e soprattutto mai farsesco. Ci restituisce, inoltre, un'idea della comunità carica di riferimenti al cinema più classico, nel presentarci questa Anderson nel South Carolina; una cittadina noiosa, il cui tempo è scandito dai ritmi degli sport collegiali e dalle discussioni che questo genera nell'affollato ritrovo del barbiere e le cui figure principali sono il coach e il direttore di banca, nonché padre di un giovane di belle speranze sportive.

Questa immagine della comunità che sembra uscire dalle pagine della celebre ricerca Middletown dei coniugi Lynd, è probabilmente un po' ottimista e fuori moda, specie se confrontata all' attuale ri-visitazione corrosiva fattane dal cinema moderno (da Fargo a Soldi sporchi, passando per Affliction), ma non è comunque mai stucchevole o vittima dell'ideologica pedagogica da famiglia Robinson, per intenderci. Si tratta piuttosto di una scelta di campo, di un carattere distintivo che ricorda a tratti l'immagine fornitane anche da David Lynch in Una storia vera; è l'immagine di un luogo poco dinamico, ancorato a vecchi e confusi valori, apparentemente solidale ma in realtà individualistica e pericolosamente innocua, col continuo rischio di influenzabilità che questo comporta.