Recensione Amami se hai coraggio (2003)

Se l'esordio di Yann Samuell convince dal punto di vista estetico, meno riuscito risulta l'andamento del plot, che si impantana in un romanticismo eccessivo, a volte involontariamente freddo, quasi sempre sopra le righe.

Un gioco un po' troppo romantico

Esordio alla regia per Yann Samuell, illustratore con un ottimo occhio cinematografico e una evidente passione per il cinema francese più classicamente narrativo: Amami se hai coraggio è il discutibile titolo della sua opera prima, e racconta con toni fiabeschi il percorso parallelo di Julien e Sophie, due bambini diversi dalla media e con un'infanzia molto poco idilliaca. E' proprio questa diversità la molla della loro simbiosi infantile, adolescenziale e adulta, tutta centrata sul gioco e sull'importanza dei valori infantili e dell'amore nel senso più romantico e letterario del termine; un amore che segue un percorso a tratti farsesco, in altri momenti ostentatamente tragico. Una commedia crudelmente romantica (nella definizione che ne ha dato la protagonista Marion Cotillard), in bilico tra la tradizione e il rinnovamento estetico post-Il favoloso mondo di Amélie.

La grammatica espressiva del film di Samuell è difatti essenzialmente post-moderna, fiabesca e ossessivamente kitch nelle sue suggestioni visive di matrice grafico-cartonistica e nella caleidoscopica gamma di colori, marcatamente saturi. Inoltre, la colonna sonora prosegue su questa strada, fornendoci un inequivocabile postulato, mediante la rievocazione in molteplici temi del classico della musica francese "La vie en rose". D'altronde, tale risultato complessivo era esattamente quello voluto dall'esordiente regista francese che dichiara: "Volevo rendere un'aria di impertinenza con un aspetto speed alla Trainspotting, mescolato alla fiaba Mary Poppins".

Se comunque le scelte estetiche sono, nel complesso, interessanti, meno riuscito è l'andamento complessivo del plot, che si impantana in un romanticismo eccessivo, a volte involontariamente freddo, quasi sempre sopra le righe. Mentre nella parte iniziale il percorso dei due bambini si segue con piacevolezza e tenera immedesimazione, progressivamente i loro eccessi ludici e le loro scommesse amorose sanno di artefatto e finiscono per togliere mordente alla pellicola, che vira verso un facile e finto nichilismo esistenziale fortemente modaiolo (indicatore ineccepibile di questo sono le peregrinazioni dialettiche usate dal protagonista, in voce-off, nel descrivere la sua vita senza l'amata Sophie). Un nichilismo poi paradossale in un film che celebra la purezza dell'amore e del gioco.

Per quanto i loro personaggi siano caricati, gli interpreti, invece, mostrano di sapersi muovere nel loro ruolo; specialmente Marion Cotillard (da poco protagonista anche dello splendido Big Fish), probabilmente anche in virtù del suo innato fascino, riesce a mantenere a galla un ruolo potenzialmente a forte rischio di banalità. Meno trascinante, ma comunque efficace e credibile è Guillame Canet, mentre, una mansione speciale va a Thibault Verhaeghe che interpreta il piccolo Julien quando ha 8 anni, e che sorprende paradossalmente per professionalità, dove la recitazione dei bambini è da sempre sinonimo di spontaneità.