Recensione Alice in Wonderland (2010)

Pur costretto in una sceneggiatura un po' troppo tradizionale e lineare, Burton sfodera - come da par suo - una baluginante confezione visiva, dove gli effetti speciali inondano la scena, plasmando a piacimento perfino i corpi degli interpreti. Ma a fare la differenza sono soprattutto le performance degli attori: gli sbalorditivi Mia Wasikowska, Johnny Depp e Helena Bonham Carter, perfettamente identificati con i loro assurdi personaggi.

Alice non abita più qui

La vecchia Alice - quella dei libri originali di Lewis Carroll e del cartoon Disney del 1951 - la rivediamo soltanto in uno sparuto flashback, che ci mostra la bambina conversare con il sardonico Stregatto, intonare un ritornello in compagnia del forsennato Cappellaio Matto e dipingere di rosso tutte le rose bianche del palazzo reale per ordine della Regina di cuori. Ma si tratta solo di impalpabili attimi che riemergono dal passato, come sospesi tra le fumose volute blu del sibillino Brucaliffo. La nuova Alice di Tim Burton non abita più qui. È tornata a Londra, dove è in procinto di sposarsi con un lord e di vivere una monotona esistenza in disparte, come si conviene alle dame vittoriane. Eppure, proprio nel momento in cui pare essere condannata a un destino noiosamente ordinario, soffocata da pesanti corsetti e da ancor più opprimenti convenzioni sociali, Alice si ricorda all'improvviso dei mantra impartitigli del padre esploratore: "Per ottenere l'impossibile bisogna credere che sia possibile" e "tutte le persone migliori sono matte". E così decide di seguire di nuovo l'ansiogeno Bianconiglio, di tuffarsi a precipizio nella sua tana e di attraversare ancora una volta "lo specchio".

Il tempo, tuttavia, passa anche nel mondo dei sogni e Alice non si ritrova più nel Paese delle meraviglie. Il suo mondo immaginario si è modellato in maniera da risultare più consono ai turbamenti oscuri dell'età adolescenziale. Il Wonderland della spensieratezza infantile si è tramutato, infatti, nel minaccioso Underland, il Sottomondo dove impazza lo scontro tra la mestruale Regina rossa (Helena Bonham Carter) e la sua virginale sorella Regina bianca (Anne Hathaway). Anche la follia del Cappellaio, in questa inedita versione di Johnny Depp, ha una natura diversa: non più esplosione gioiosa, anarchica e liberatoria; ma delirante ossessione scaturita dal trauma della guerra. Attorno al suo tavolo da tè, diroccato e circondato da macerie, non si celebrano più noncompleanni. Non è più tempo per festeggiare: Alice ormai è adulta e va alla guerra, novella paladina della compagine Bianca contro la sanguinaria tirannia Rossa. E l'immaginario si tinge all'improvviso di fantasy: tra un rabbioso Grafobrancio da scansare, un gigantesco uccello predatore da cui fuggire e soprattutto il temutissimo Ciciarampa (Jabberwocky nella versione originale) da annientare, sembra di essere finiti dentro i libri di J.R.R. Tolkien piuttosto che in quelli di Lewis Carroll! Per fortuna che nel Sottomondo ci sono almeno i vecchi amici di una volta: l'evanescente Stregatto, l'angustiato Bianconiglio, il fumoso Brucaliffo, la schizoide Lepre marzolina, l'inestricabile duo Pinco Panco e Panco Pinco. Ma soprattutto i vecchi nemici: la Regina rossa non è mai stata così deliziosamente sanguigna come in questa ipercefalica personificazione a opera di Helena Bonham Carter.
Tim Burton è partito da Walt Disney e da Walt Disney è ritornato. Non è un mistero che l'immaginario sbilenco e stralunato del regista si sia nutrito dell'humus fertile degli studi disneyani, dove ha lavorato come animatore durante i primi anni della sua carriera. Nel suo caso, però, il sogno fatato degli anni Cinquanta ha partorito dei mostri. Vincent, Frankenweenie, Edward mani di forbice, Jack Skeletron di Nightmare Before Christmas, gli alieni (anch'essi ipercefalici) di Mars Attacks! incarnano tutti il lato oscuro e freak di quell'american dream, e rappresentano in qualche modo l'altra metà - decadente, difforme, sgraziata - dello zuccheroso universo Disney. Da La fabbrica di cioccolato in poi Burton però è passato, per così dire, "dall'altra parte dello specchio", tornando forse all'origine delle sue ossessioni, ma al tempo stesso abbracciandole in maniera più istituzionale e classicheggiante. Anche Alice in Wonderland rientra in quest'ultima fase, decisamente più tradizionalista, della sua filmografia.
Burton rielabora il materiale classico, declinandolo come al solito secondo la sua personale raffinatissima visione estetica (divenuta ormai forse più sontuosamente e riccamente barocca, che non gotica come alle origini). Tenta anche di inoculare sottopelle germi della propria poetica, ma si intuisce che il margine di manovra autoriale è molto limitato in questa megaproduzione, concepita soprattutto per strizzare l'occhio al pubblico adolescenziale appassionato di saghe fantasy. Il peccato più grave di Alice in Wonderland è la sceneggiatura dal percorso semplice e lineare (assolutamente non burtoniana), che finisce per normalizzare del tutto la vena irrazionale, eversiva e nonsense alla base delle opere di Carrol, vero e proprio elogio puro e incondizionato della follia. Nemmeno la terza dimensione (anche perché il film è stato girato da Burton con cineprese digitali, ma non stereoscopiche) riesce a immergere completamente lo spettatore in questo nuovo Sottomondo. Al di là dei pur straordinari e sofisticati effetti speciali, che plasmano e modellano i corpi degli attori oltre ogni limite, a fare la differenza in Alice in Wonderland rimangono soprattutto gli interpreti in carne e ossa che si celano dietro gli orpelli del digitale. L'incantevole Mia Wasikowska aderisce con perfezione agli (innumerevoli per foggia e dimensione) panni di Alice, mentre Johnny Depp e Helena Bonham Carter si abbandonano con generosità agli eccessi caricaturali dei rispettivi personaggi.
Anche così, tuttavia, si sente lo stesso la nostalgia per i noncompleanni perduti...