Recensione Il figlio più piccolo (2010)

Avati si cala per la prima volta nella realtà contemporanea per denunciare il vuoto morale che contraddistingue i potenti di casa nostra, a cui contrappone la forza e il valore dell'ingenuità e della speranza di chi crede nei propri sogni.

Un presente che non si può ignorare

Un immobiliarista sommerso dai debiti decide di evitare pignoramenti e carcere intestando le sue società fallimentari al proprio figlio. Potrebbe benissimo essere la realtà, e invece è un film. Pupi Avati, fatto nuovo nella sua cinematografia, abbandona le storie al passato e si getta prepotentemente nello squallore della società contemporanea, inasprendo i toni che, sebbene non siano mai stati del tutto indulgenti nei confronti delle miserie umane, qui denunciano uno stallo etico senza precedenti.

Certamente ispirato da recenti fatti di cronaca, Avati incentra la storia sulla figura di Luciano Baietti, aspirante faccendiere che realizza i propri sogni di denaro e potere facendosi intestare tutti i beni della moglie, abbandonata il giorno delle nozze con due figli piccoli a carico, e affidando l'amministrazione della propria fortuna a un commercialista d'assalto (a tutti noto come "Il Professore"), tanto spregiudicato negli affari quanto ipocondriaco e nevrotico nel privato. Ma dopo quindici anni di successi, Luciano e la sua piccola cricca di collaboratori, veri o presunti, vengono messi alle corde dalle indagini sempre più pressanti della Guardia di Finanza, vicinissima a scoprire i maneggi e gli scambi di favori su cui l'impero immobiliare di Baietti è stato costruito e sostentato. E quando nemmeno un matrimonio politicamente favorevole sembra poter salvare la situazione, l'astuto commercialista partorirà la più squallida delle scappatoie: trasferire tutte le società al figlio minore di Luciano, Baldo, cresciuto dalla madre, incapace di vedere le malefatte dell'ormai ex marito, nel culto della figura paterna, e nella convinzione che, prima o poi, quell'uomo sfuggente ed egocentrico sarebbe tornato per cambiare la vita alla sua famiglia.

E' proprio il contrasto tra il candore e l'innocenza di Baldo e della madre (a cui il figlio maggiore è, per sua fortuna, immune) e il cieco, praticamente inconsapevole, disprezzo per le implicazioni morali del proprio agire, che caratterizza Luciano e il suo burattinaio, a rendere la pellicola così cinica e sconfortante: alla casta delle vittime, dei sognatori, di quelli per cui abbandonare la speranza non è un'opzione possibile, si contrappongono qui dei cattivi la cui grettezza, la cui miseria etica non sono nemmeno scelte, ma dati di fatto, connaturati nel loro essere, e nell'essere di coloro che a tutt'oggi sono considerati i vincenti, le figure da prendere a modello. Come ha osservato Luca Zingaretti, protagonista di un'ottima prova nei panni del commercialista, qui non si tratta di immoralità, ma di amoralità: la sudditanza delle persone, e dei loro destini, alla ricerca e al mantenimento della prosperità economica (quantunque fasulla) e della ribalta mediatica è considerata normale, come se non esistesse alcuna alternativa. Questo è vero per Luciano, patetica marionetta che non si è mai posto una domanda, e che, seppure marginalmente, è forse anche un po' vittima, ma soprattutto per Il Professore, vero artefice, quasi fosse uno Iago contemporaneo, di tutto quel meccanismo perverso.
La volontà di denuncia che anima la pellicola è tanto più efficace grazie all'ottima caratterizzazione dei personaggi principali, reali ma non banali, e che il regista è abile a connotare senza disvelare mai del tutto: così come capita nella vita, è impossibile comprendere le motivazioni finali, le esperienze che hanno delineato una personalità, e tanto Christian De Sica, che finalmente si cimenta in un ruolo complesso e problematico, e l'esordiente Nicola Nocella, convincente nella parte del figlio ingannato, senza dimenticare il già citato Zingaretti, lasciano trasparire questa ambiguità. Quasi con tratti caricaturali sono delinate invece altre figure, quali quella della futura moglie o della segretaria, che stemperano parzialmente la crudezza della pellicola, veicolata anche dalla regia, che sceglie di rappresentare perfino l'opulenza e il lusso sottolineandone le atmosfere opprimenti. Seppure sgangherato e male in arnese, il mondo di Baldo e della madre, una Laura Morante "scemina", come la chiamava Luciano, ma non incapace di vigorose reazioni, è invece descritto con delicata benevolenza, ultima roccaforte a cui guardare con speranza.

Avati si è sempre schierato dalla parte dei piccoli, degli ingenui, anche dei perdenti, mettendone in luce la genuinità, la valenza positiva, e in questo caso non poteva per forza di cose essere altrimenti. Il confronto con gli aspetti più crudeli della realtà, una realtà a cui per primo il regista, da sempre indifferente a scandali e polemiche, ha dovuto rispondere con forza, è per essi impietoso: eppure, anche nel suo film più cinico, forse Avati un po' di pietas la concede anche ai propri cattivi. Luciano e Il Professore sono sordidi, abietti, ma la loro cattiveria è talmente ovvia che forse non sa quasi di essere tale. Ma siamo sicuri che nei furbetti che monopolizzano le colonne di cronaca, che giocano con il futuro delle persone come se fossero semplici numeri, non ci sia una ben diversa, e più responsabile, consapevolezza?

Movieplayer.it

3.0/5