Recensione Le iene (1992)

Rivisto ora, il film di Tarantino non ha perso un grammo della sua forza e della sua capacità di colpire duro lo spettatore, apparendo molto di più di un elegante "gioco" cinefilo o dell'espressione delle "prove generali" per il successivo e celebrato Pulp Fiction.

Un 'colpo' lungo vent'anni

Era il 1992, quando un regista neanche trentenne, ex commesso di una videoteca e compulsivamente innamorato del cinema, portava il suo folgorante esordio sugli schermi mondiali. La storia è nota: Le iene, film girato in sole 5 settimane con poco più di un milione di dollari di budget, avrebbe riscosso un grande successo, poi amplificatosi negli anni successivi parallelamente alla fama del suo autore; lo stesso Quentin Tarantino si sarebbe imposto molto presto nel panorama cinematografico internazionale come autore eclettico ed innovativo, segnando in profondità e in modo indelebile il cinema degli anni '90 (e quello dei decenni successivi). Rivisto ora, in occasione del ventennale della sua uscita cinematografica, il film di Tarantino non ha perso un grammo della sua forza e della sua capacità di colpire duro lo spettatore, apparendo molto di più di un elegante "gioco" cinefilo o dell'espressione delle "prove generali" che il regista avrebbe fatto in vista del suo film più popolare, il successivo Pulp Fiction. Le iene, infatti (risparmiamo al lettore la descrizione della trama, assolutamente nota ai più) contiene già in sé, in nuce, gran parte degli elementi della poetica tarantiniana (l'humour nero e l'uso insistito e surreale dei dialoghi, la violenza iperrealistica, le citazioni e la destrutturazione dei generi, l'uso della musica diegetica come contrappunto ed elemento di tensione) ma resta innanzitutto una pellicola che, presa in sé, riesce a creare tensione con pochissimi mezzi, con sostanzialmente una sola location e con pochi ma fondamentali eventi nel dipanarsi del suo plot. Un vero e proprio noir, debitore alla tradizione, non solo statunitense, del genere, e che di esso riprende gli elementi fondamentali e soprattutto la filosofia.


Ha un'anima indiscutibilmente nera, in effetti, il film di Tarantino: più nera, probabilmente, di qualsiasi prodotto che il regista offrirà ai suoi spettatori successivamente, e in cui anche i momenti di humour sono subordinati (e giustificati) da un pessimismo di fondo che avvolge tutta la narrazione. La folgorante apertura, con il celebre dialogo che introduce i personaggi allo spettatore (e che diverrà in breve l'emblema dell'uso dei dialoghi, in chiave destrutturante, fatto dal regista americano) è subito seguita dalle drammatiche conseguenze della rapina compiuta dai protagonisti: la narrazione ha fatto un salto temporale in avanti, il colpo è compiuto, tutto è andato in malora. Il Mr. Orange interpretato da Tim Roth piange come un vitello sgozzato, il suo sangue copiosamente sparso all'interno dell'automobile a bordo della quale un Mr. White/Harvey Keitel che cerca disperatamente di restare freddo lo sta conducendo al luogo dell'appuntamento designato. Non fa sorridere, la violenza di questa sequenza, non c'è traccia dell'umorismo cartoonesco che avrebbe informato di sé gran parte di Pulp Fiction: c'è iperrealismo nella messa in scena, sì, ma c'è soprattutto la cruda, brutale rappresentazione del terrore di un uomo che sta perdendo la vita. Nell'uso improvviso (e assolutamente innovativo per l'epoca) del flash forward, c'è tuttavia l'introduzione di un altro elemento forte della poetica tarantiniana: la narrazione non conseguenziale, le ellissi, l'uso spregiudicato, ma mai gratuito, dei salti temporali. Sarà questo, in effetti, il modello di racconto su cui tutto il film si dipanerà nei minuti successivi: una linea narrativa forte caratterizzata dall'incontro dei personaggi nel capannone abbandonato, inframezzata da flashback che descrivono i singoli background dei protagonisti, e da improvvisi salti a ritroso a mostrare il modo in cui essi sono giunti alla situazione in cui si trovano. Solo la rapina, in sé, resta rigorosamente fuori campo: un atto di fiducia (giustificato) nella capacità dello script di delinearla in modo vivido, attraverso i dialoghi, nella mente dello spettatore.

Quello che a tutt'oggi colpisce de Le iene, tuttavia, al di là del suo carattere di "battesimo" per lo spettatore nell'universo tarantiniano, è la perfetta capacità della sceneggiatura nel portare avanti un plot semplice nella concezione, ma complesso per le sue modalità narrative, che in soli 95 minuti riesce a ritagliare anche lo spazio necessario a una descrizione puntuale e credibile di ognuno dei personaggi; e, oltre a questo, una regia di fattura tecnica altissima, in grado di generare tensione grazie alla semplice interazione dei personaggi, di restituire allo spettatore tutto il clima di pessimismo, di sospetto e infine di nichilistica rassegnazione che si respira all'interno del capannone. Il celebre finale, con la sua circolare danza di morte a fare da perfetto contraltare al (solo apparentemente) frivolo incipit, è qualcosa che si avvicina molto al disvelamento di un'anima: quella cupa e noir che pulsa nel cuore del film, che finisce per aver ragione del cameratesco senso di lealtà instauratosi tra i personaggi di Keitel e Roth, che mostra la natura brutale e guidata essenzialmente dall'interesse (e dalla logica della sopravvivenza) dell'agire umano. Se un classico come Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (modello ovvio e dichiarato per il regista) mostrava nel suo finale questo senso di resa e di cinica sfiducia nei confronti dell'essere umano, Tarantino porta questa filosofia alle sue estreme conseguenze: sia in senso grafico che nei contenuti.
L'accenno al film di Kubrick non può che portarci a parlare di un capitolo da sempre spinoso per il cinema di Tarantino, ovvero quello delle citazioni. Questo film, in particolare, è stato per anni accusato di essere un plagio dell'hongkonghese City on Fire di Ringo Lam: pellicola di cui, in realtà, il regista americano ha ripreso l'ultima mezz'ora, rielaborandola e dilatandola fino a farne un lungometraggio. Il punto, tuttavia, è proprio quello appena evidenziato: Tarantino, da sempre, non si limita a citare e a riproporre, ma rielabora e filtra i suoi modelli attraverso un'ottica personale e cinematograficamente onnivora. Molti e altri riferimenti si possono ritrovare, in particolare, in questo suo esordio: da Jean-Luc Godard fino a Samuel Fuller, passando per i gangster movie del giapponese Kinji Fukasaku. Ma questo, in fondo, conta poco: trovare citazioni e riferimenti (veri o supposti) può essere esercizio divertente per il cinefilo, ma non deve far perdere di vista il fatto che il regista americano stava iniziando, allora, a creare una sua poetica: duttile e multiforme, coerente con i generi di volta in volta trattati, ma sopra ogni altra cosa assolutamente personale. Gli stilemi tarantiniani di cui si parlava in apertura si adattano qui, perfettamente, a una pellicola dichiaratamente di genere: la stessa, ormai celeberrima sequenza della tortura del poliziotto ad opera di Michael Madsen, contiene in sé almeno due elementi di tale poetica (la violenza iperrealistica e l'uso del commento sonoro diegetico); ma risulta, oltre che a tutt'oggi assolutamente d'impatto, del tutto coerente col clima del film. Questa duttilità di una poetica, di uno sguardo e di un intero universo, portati sullo schermo dal regista, film dopo film, in vent'anni di carriera, fa sì che il suo cinema continui tuttora a mettere d'accordo tipologie diversissime di spettatori. E fa sì, inoltre, che pellicole come Le iene appaiano ancora, nella loro concezione e nella messa in scena, assolutamente moderne. Probabilmente, nel trentennale o nel quarantennale della sua uscita, saremo di nuovo qui a scrivere le stesse cose. Scommettiamo?

Movieplayer.it

5.0/5