The Avengers: la strada verso i Vendicatori

Lungo e non sempre facile, il percorso degli Avengers al cinema convergerà tra pochi giorni in una delle pellicole più attese dell'anno: azione, spettacolarità, ma anche le importanti riflessioni proposte dal fumetto sono quello che la pellicola di Whedon promette al grande pubblico.

I fumetti: roba per bambini. Quante volte abbiamo sentito liquidare così la questione e, magari, guardando il trailer di Avengers (noti in italiano anche come Vendicatori), il sospetto che una parte di verità quell'affermazione la contenesse ci è venuto. Sei individui dotati di capacità particolari quanto eterogenee (nonché evidentemente mal distribuite in merito a potenza offensiva), uniti dal comune intento di salvare il pianeta da una minaccia insieme divina ed aliena. C'è senz'altro da ammettere che la parte più istintiva dello spettatore, quella in cerca dello spettacolo puro, che vuole vedere città in fiamme, il mondo sull'orlo del baratro, che vuole perdere la speranza e poi riacquistarla grazie a un ultimo, disperato moto di orgoglio e di senso del dovere di qualcuno che le mani le sa menare, ha di che essere lusingata da queste premesse. Ma, parlando di supereroi, chi abbia sfogliato senza pregiudizi anche pochi albi di comics sa che dietro i colori sgargianti, i nemici a volte improbabili, le morti e le rinascite raffazzonate per tappare buchi di sceneggiatura o per rimpolpare le vendite, c'è molto più di un tizio in armatura, o in calzamaglia, che deve salvarci tutti. La vera forza del supereroe non sta nella sua componente "super", ma piuttosto nella sua parte umana, quella che lo accomuna a noi, che ci fa pensare che dopotutto è solo il morso di un ragno radioattivo che ci distingue da uno Spider Man, o che, con una bella iniezione del siero del supersoldato, forse penseremmo prima a vendicarci dei bulli piuttosto che a seguire i nostri ideali patriottici. E' il modo in cui l'eroe fa i conti con la propria parte umana, e quello in cui l'uomo affronta il peso del proprio potere, che tanto ci appassiona: anche se è un dualismo instabile, anche se il nostro protagonista ci delude, è difficile che perda la nostra fiducia, perché noi sappiamo che è uno come noi, che può sbagliare, ma che sa anche risollevarsi, migliorare, crescere.

Anche per questo è tanto difficile portare su grande schermo gli eroi dei fumetti: c'è chi ha percorso un lungo tratto di vita insieme a loro, e ritiene di capirli e di conoscerli più di quanto qualsiasi sceneggiatore vorrebbe fare, e chi invece è solo curioso, e nulla sa di cosa si nasconda dietro la maschera. Accontentare gli esperti, rimanendo fedeli alla storia del personaggio, spesso essa stessa contraddittoria e rimaneggiata negli anni, ma anche risultare credibili nei confronti dei neofiti, costruendo delle origini coerenti ma non troppo complicate per l'eroe di turno, è una sfida non da poco, e non si può negare che i risultati non siano stati sempre ineccepibili. Ma, se c'è una lezione che alla Marvel hanno capito bene, è quella che insegna come i supereroi al cinema facciano fare un sacco di soldi, e con un po' di attenzione e lungimiranza sia possibile assicurarsi un bel bottino in via continuativa, grazie a un solo, semplice espediente: metterli insieme.
Rifacendosi alla continuity fumettistica, che vede coesistere nello stesso universo tutti i personaggi, negli ultimi anni il cinema ha tracciato un lento ma inesorabile percorso di avvicinamento tra i supereroi, destinato a culminare in questi Avengers lungamente promessi.
E poco importa se, per giungere al risultato finale, si è dovuto fare tabula rasa di alcune esperienze del passato, prima fra tutte l'Hulk di Ang Lee: rea di essere troppo introspettiva, troppo sperimentale a livello registico, la prima declinazione cinematografica dello scienziato che è meglio non fare arrabbiare è stata senza remore accantonata, per fare spazio a una sua versione più esplosiva, più muscolare, che il carisma di Edward Norton ha dovuto impreziosire con il dovuto rovello interiore. Non è un caso che sia proprio la figura in cui la distanza tra la parte "super" e la componente umana è maggiormente accentuata ad aver subito il destino più travagliato: la natura imprevedibile del personaggio, lo sforzo costante dello scienziato per ottenere il controllo sulla propria parte più istintiva sono i pilastri su cui si fonda l'epopea fumettistica di Hulk, e finora nessuna delle pellicole a lui dedicate ha saputo rendere giustizia fino in fondo alla profondità dei temi affrontati nel corso della lunga saga cartacea. Se nel film di Lee si approfondiva il rapporto con il padre, così come la riflessione sulla responsabilità di scienziato e di uomo di Banner, nella pellicola di Leterrier viene suggerito il percorso di evoluzione che porterà il protagonista ad ottenere il controllo sul proprio doppio verde. Ma, complice anche la scelta di epurare il montaggio finale dalle sequenze più drammatiche (prima fra tutte quella del tentativo di suicidio, nella quale avrebbe anche dovuto comparire un primo assaggio del ritorno di Capitan America), il risultato appare comunque superficiale, molto più orientato ad appagare l'esigenza di spettacolarità, e di leggerezza, rimasta insoddisfatta dal 2003, anche in considerazione dell'assenza di un nemico realmente interessante.
Se è difficile descrivere in maniera efficace l'ambiguità di un personaggio che, pur nel suo essere indiscutibilmente unico, nasce pur sempre uomo, ancora più problemi implica il dover restituire su schermo un eroe che uomo non è, ma che è costretto suo malgrado a diventarlo. Il dio asgardiano Thor, affidato alle cure del talentuoso Kenneth Branagh, offre di sé un'immagine non troppo difforme da quella del fumetto classico in quanto a sapore generale, ma ciò non toglie che il suo personaggio e la sua storia abbiano comunque dovuto subire pesanti rimaneggiamenti per risultare graditi al palato della platea cinematografica. Il Thor fumettistico, irruente e spaccone, ma sempre generoso e dal grande cuore come quello che abbiamo conosciuto al cinema, ha vissuto sulla Terra un'esperienza ben più travagliata di quella impostagli dall'Odino di Anthony Hopkins: immemore della sua natura divina, ha dovuto recuperarla a poco a poco, partendo dai panni ben poco epici del dottor Donald Blake (rapidamente citato in una delle sequenze del film). Nello spazio di una sola pellicola, necessaria più per gettare le basi di un personaggio propedeutico allo sviluppo della storia comune che ad approfondirne le istanze profonde, non vi era modo di addentrarsi nel dualismo tra divino e umano su cui si imperniava il Thor cartaceo. Ciononostante, Branagh è stato comunque abile nel suggerire, con inserzioni intelligenti e momenti di ironia, alcuni dei tratti salienti del personaggio, come il vocabolario arcaico e altisonante con cui il dio norreno è solito esprimersi, o l'atteggiamento scanzonato e irriverente che aveva già caratterizzato la versione Ultimate, dichiaratamente no-global, di Thor. La cura profusa nella rappresentazione del regno degli dei e delle sue dinamiche interne, così come la messa in campo senza inutili indugi della nemesi del protagonista, il fratellastro Loki, sono ulteriori aspetti che rendono il lavoro di Branagh senz'altro convincente, seppure non del tutto esauriente nel restituire l'importanza dell'esperienza "umana" di Thor.
Molto più facili diventano le cose quando tra l'uomo e il superuomo non c'è tutta questa differenza, e anzi l'uomo è sempre stato abituato ad essere considerato, e a considerarsi, super. Parliamo ovviamente di Iron Man, autodefinitosi, con un'efficace sintesi genio, miliardario, playboy, filantropo. Già protagonista di due pellicole a lui dedicate, l'istrionico magnate dell'industria bellica è forse il personaggio meglio tradotto su grande schermo. Merito non soltanto di una sceneggiatura che ricalca, adattandole allo scenario contemporaneo, le circostanze delle sue origini e le premesse che faranno del godereccio capitalista un eroe a tutti gli effetti, ma soprattutto della scelta di Robert Downey Jr. come protagonista. Nonostante risultino in generale convincenti, quanto a presenza scenica, le controparti cinematografiche dei componenti dei Vendicatori (con l'unica incognita di Mark Ruffalo chiamato a vestire i panni di Banner/Hulk, costretto a cambiare volto per la terza volta), è solo nella saga di Iron Man che si è riusciti a realizzare una così perfetta identità con il personaggio originale, di cui Downey Jr. riprende tanto la verve quanto la discussa, ma a suo modo ferrea, moralità. Certo l'impostazione lungimirante con cui è stata affrontata la vicenda cinematografica di Tony Stark ha giovato alla credibilità dell'operazione: se il primo film ha potuto gettare le basi della personalità e della visione della vita del protagonista, mancando però di un confronto realmente appassionante, tanto sul piano psicologico che su quello fisico, con l'oppositore di turno, nella seconda pellicola, ben più disposta a indulgere sui tratti più scanzonati ed eccentrici dell'eroe, viene dispiegata tutta la potenzialità spettacolare della guerra, a colpi di innovazioni tecnologiche ma anche di sane scazzottate, tra Iron Man e i suoi nemici.
L'ultima aggiunta di casa Marvel al mosaico degli Avengers è Capitan America, che opportunamente traina il franchise a partire dal sottotitolo: Il primo Vendicatore. Forse il più monolitico, il più idealista, se non anche il più retorico tra i difensori del pianeta, Steve Rogers aveva bisogno di una bella rimodernata, rispetto al personaggio frutto della propaganda patriottica e antinazista americana degli anni Quaranta. Il film di Johnston, pur mantenendo inalterati i cardini della personalità del protagonista, riesce ad avvicinarlo al pubblico contemporaneo, soprattutto grazie a una certa dose di ironia e di umiltà. Steve Rogers, più che un uomo "arrivato", senza indugi o tentennamenti, è, siero del supersoldato a parte, un supereroe che si è creato da sé: di certo le nuove capacità fisiche ne hanno migliorato le prestazioni sul campo, ma sono il lavoro sulla propria indole insicura, insieme alla volontà di trarre dalla propria storia di debolezza e impotenza i motivi del vero cambiamento a contraddistinguerlo come eroe, e a farne un personaggio capace di avvicinarsi al cuore del pubblico. Come è stato per Thor, anche la pellicola di Johnston riesce a tratteggiare gli elementi più caratterizzanti di un eroe che è ancora in attesa di essere approfondito, in particolare per quanto riguarda le relazioni con la contemporaneità. Uno degli snodi più interessanti del personaggio di Capitan America è la sua difficoltà nell'interfacciarsi con il mondo in cui si risveglierà dopo sessant'anni di sonno forzato: proprio il rapporto con una società che gli è estranea, la necessità di comprendere la morale di compagni così diversi da lui sono alcune delle maggiori fonti di curiosità che riguardano la sua prossima apparizione sul grande schermo.
E, a proposito di compagni diversi, vale la pena di riflettere sul ruolo degli ultimi due componenti della squadra messa insieme dall'ormai noto Nick Fury, vero fil rouge tra una pellicola e l'altra. Da una parte abbiamo Vedova Nera, quella Natasha Romanoff già conosciuta in Iron Man 2 e interpretata da una Scarlett Johansson sicuramente sensuale ma forse non altrettanto convincente come atleta. Dall'altra c'è Occhio di Falco, apparso in un brevissimo cameo, e riconoscibile solo dagli spettatori più attenti, nella sequenza della cattura di Thor ad opera dello S.H.I.E.L.D. Assenti dalla primissima formazione degli Avengers, che comprendeva invece Ant-Man (sul brillante scienziato Hank Pym era a più riprese stata annunciata una pellicola, le cui sorti sono allo stato attuale ancora incerte) e sua moglie Wasp, i due combattenti condividono un passato in comune, sebbene epurato dalle componenti più oscure (quando di spia, quando di assassini, comunque di amanti) che ne contraddistinguevano la versione fumettistica, e che ne hanno ritardato (seppur di pochissimo nel caso di Occhio di Falco) l'ingresso tra le fila dei buoni. Inevitabilmente, rispetto alla controparte cartacea, entrambi i personaggi sembrano aver subito una notevole semplificazione, in virtù soprattutto del non aver potuto beneficiare di una pellicola a loro dedicata che ne tracciasse anche un minimo background. E c'è da dubitare che Whedon abbia scelto di ritagliare un particolare spazio per il loro approfondimento, dovendosi prendere cura di altri protagonisti, ben più promettenti dal punto di vista della spettacolarità.
Ma, se siamo pronti a rinunciare a un po' di sottigliezze psicologiche sui due pur formidabili agenti dello S.H.I.E.L.D., ciò di cui il pubblico non può proprio fare a meno è un nemico degno di tale nome: in fondo, sono proprio i cattivi a determinare, in un certo senso persino a giustificare, l'esistenza degli eroi, nell'ambito di quel rapporto ambiguo che ne lega indissolubilmente i destini e che ci fa a volte pensare che, forse, l'unico modo di eliminare il male sarebbe fare a meno anche del bene a cui si oppone. La scelta di Loki appare quindi sicuramente tra le più convincenti adottate dal regista, anche in considerazione del suo essere il primo, storico nemico della squadra. Signore degli inganni, maestro della manipolazione mentale, il subdolo figlio di Odino aveva saputo abilmente sfruttare la potenza offensiva di Hulk come arma di attacco (e nulla ci vieta di pensare che forse sarebbe opportuno che ci provasse anche nella sua avventura cinematografica), mentre qui si avvarrà nientemeno di un esercito alieno, ispirato ad alcune delle razze più drammaticamente note agli eroi Marvel, che a più riprese hanno minacciato la sopravvivenza del pianeta: i chitauri, gli skrull, i kree. Se si aggiunge a questo che già nella pellicola di Branagh il personaggio di Loki era stato caricato di quella componente shakespeariana, di eterno conflitto con il padre e il fratello, che tanto lo aveva reso affascinante ai lettori dei fumetti, non ci si può non arrendere all'aspettativa che solo una storia di vendetta sa regalare.
Promettono tanto, questi Avengers. Non solo l'azione e l'umorismo a cui ci hanno ormai abituato le precedenti pellicole, ma anche, come appare fin troppo logico date le premesse, una riflessione sul significato della collaborazione e del sacrificio, sulla necessità di mettere da parte differenze e rivalità per il bene di una causa più grande. Messi insieme forzatamente da un Samuel L. Jackson che ha incarnato il capo dello S.H.I.E.L.D. ancora prima di deciderlo di propria spontanea volontà (il Nick Fury della versione Ultimates è stato infatti ridisegnato ispirandosi dichiaratamente alla fisicità e al carisma dell'attore americano), i protagonisti dovranno compiere, nel breve spazio di una pellicola, il difficile percorso destinato a farli diventare un gruppo, seppure sempre animato da una conflittualità che non pregiudica certo l'amicizia, ma che ha già dato origine a plateali voltafaccia. Il rischio che questo importante aspetto venga banalizzato, o semplicemente messo in secondo piano dalla volontà di privilegiare le potenzialità spettacolari di un ensemble così variamente assortito, rendendo giustizia ad ognuno dei protagonisti, è reale. Eppure, come ammette senza riserve anche lo stesso Nick Fury, nonostante tutto, noi negli eroi ci crediamo ancora.