Stefano Calvagna prende la Rabbia in pugno

A distanza di pochi giorni dall'uscita di Multiplex, il regista ha presentato alla stampa il suo film girato nel 2011, un revenge movie noir che realizzò mentre era agli arresti domiciliari. Con lui, il co-sceneggiatore Giovanni Galletta e parte del cast.

Due film in sala in contemporanea, l'ultimo dei quali tenuto nel cassetto per due anni. Dopo le note disavventure giudiziarie, frutto di una complessa e controversa vicenda, la presenza di Stefano Calvagna è tornata a farsi sentire nel panorama cinematografico italiano. Dopo l'uscita di Multiplex, ironico omaggio allo slasher (italiano e americano) il regista romano porta ora in sala questo Rabbia in pugno: un noir all'italiana che riecheggia i prodotti del nostro cinema di genere anni '70, caratterizzato da una storia produttiva quantomai complessa (il film, come il successivo Cronaca di un assurdo normale, è stato interamente girato mentre il regista era agli arresti domiciliari). Il film, che vede tra l'altro la presenza di un insolito Maurizio Mattioli in un ruolo da villain, è stato presentato in conferenza stampa dal regista, dal co-sceneggiatore Giovanni Galletta, e da una parte del cast: tra i presenti, il protagonista Claudio Del Falco e l'interprete del poliziotto Alberto Tordi, le attrici Gaia Zucchi, Valeria Mei e Cristiana Esposito, il maestro di kickboxing Agostino Moroni e il campione di tale specialità, Michele Verginelli.

Calvagna, come nasce l'idea del film?
Stefano Calvagna: L'idea è nata proprio da Claudio: me l'ha sottoposta in un momento particolare, in cui non potevo neanche uscire di casa. Quando è arrivata la sua versione della sceneggiatura, l'ho letta e ho trovato che l'idea ed era buona, anche se un po' datata. L'ho voluta risistemare insieme a Giovanni Galletta. In quel periodo, dico la verità, avevo poca lucidità: ho visto passare estate e inverno da dentro casa, dal balcone, mentre la gente al contrario era in strada o al mare. Se non avessi fatto questo film, non sarei potuto uscire: quindi in qualche modo è stato un film per la libertà. E' stata un'esperienza nuova, difficile, ma comunque importante.

In questo film c'è azione, ci sono sparatorie, ma anche dei combattimenti: è la prima volta, nel cinema italiano, dopo molti anni.
Sì, era da tanto che non si vedeva un film così. Tra l'altro abbiamo girato pure delle sparatorie in palestra, mentre la palestra era attiva! Ogni tanto si sentiva sparare, era divertente. Ho anche inserito qualche battuta, pur nel contesto drammatico. Purtroppo, molti attori che dovevano essere presenti nel cast si sono fatti da parte, così ho dovuto cercare gli interpreti in mezzo alla troupe.

La battuta in cui un personaggio saluta con "Ehi, bella!" e l'altro risponde_ "Sì, bella ciao..."_ è memorabile...
Sì, ho inserito del sarcasmo, per far vedere che l'amicizia che può nascere anche tra persone di credo politico diverso.

Galletta, qual è stato il suo contributo nella sceneggiatura?
Giovanni Galletta: Io sono a Roma da 10 anni, e da allora ho sempre subito il fascino della figura di Stefano, sia come regista che come attore. Un giorno, io avevo finito un mio film da regista, e sono stato contattato da sua moglie con la richiesta di scrivere una sceneggiatura. Ho cercato di entrare in ciò che lui voleva raccontare, e devo dire che mi sono divertito a fare e scoprire dei lati del carattere umano che non ho mai raccontato: la violenza e l'ironia. Rivedendo il film, mi sono accorto di aver influenzato la costruzione di certi momenti introspettivi.

La distribuzione è stata difficoltosa? Parliamo di un film del 2011... Stefano Calvagna: Già è stato difficile girarlo, portarlo nelle sale ancora di più: è stato come ricominciare da capo, dopo la mia disavventura che ha allontanato da me i distributori. Dopo tanto tempo che era rimasto nel cassetto, alla fine è uscito grazie a Tonino Abballe, con cui è nata una sinergia distributiva: proprio a lui sarà dedicato il mio prossimo film, intitolato proprio Tonino. Noi lavoriamo in continuazione, praticamente H24: questo è un lavoro che, per farlo, devi amarlo. Io, personalmente, vorrei farlo in modo esclusivo e per sempre.

All'inizio del film c'è la dedica ad una "Olimpia", di chi si tratta?
Claudio Del Falco: La dedica è a mia madre, Olimpia Cavalli. Lei fece decine di film negli anni '50, lavorando anche con Totò e Vittorio De Sica. E' morta l'anno scorso, era malata di Alzheimer. Sono contento per il regalo che Stefano mi ha fatto inserendo quella dedica: in qualche modo, credo che lei oggi sia qui accanto a noi. Credo anche che sarebbe felice che io abbia continuato a fare il suo, e il mio, lavoro.

Michele Verginelli, come ha vissuto il ring dal punto di vista cinematografico?
Michele Verginelli: Io nel film ho fatto quello che mi riusciva meglio: combattere. Il cinema non è, attualmente, la mia principale aspirazione; ma se mi capitasse una nuova occasione, non mi dispiacerebbe.

Gaia Zucchi, cosa può dirci del suo lavoro sul set e del suo personaggio?
Gaia Zucchi: Io ho visto il film oggi per la prima volta, e mi è piaciuto da morire: nonostante la violenza apparente, l'ho trovato poetico. Lavorare con Stefano mette a proprio agio, lui ti dà indicazioni ma ti lasca libero: è uno che ama l'attore, da lui mi sento capita e protetta. Mi piace molto il mio ruolo, e mi ha molto colpito la frase iniziale, in cui si dice che la vendetta è il modo migliore di fare giustizia. E' un'idea che mi trova d'accordo.

Com'è stato lavorare con Mattioli, e soprattutto girare la scena dello stupro?
Beh, vedendo per la prima volta quella scena sono rimasta scioccata. Lui è un tipo simpaticissimo, ma la scena, quando l'ho girata, è stata tosta.

Spesso, nel cinema italiano, si parla di ambienti borghesi, ma qui esce fuori una Roma molto più popolare. Il film racconta un aspetto un po' inedito di questa città. Stefano Calvagna: Sì, è una Roma che non viene più rappresentata sullo schermo, da molti anni. Io nasco in periferia, e ho vissuto proprio quell'infanzia che da tempo non vedevo rappresentata. Penso che molti film importanti della storia del cinema, e penso a Pier Paolo Pasolini ma anche a Claudio Caligari, abbiano rappresentato proprio quella faccia di Roma. Forse un'ottica del genere su questa città non si vedeva dai tempi de L'odore della notte di Caligari. Io appartengo proprio a quell'altra Roma, a quella popolare, e ne sono orgoglioso.

Cristiana Esposito, qual è stato il suo rapporto col personaggio? E con la regia di Calvagna?
Cristiana Esposito: Stefano prima era solo un regista, ora è diventato anche un mio amico. Il film mi è piaciuto perché è un po' come la vita: c'è drammaticità, c'è combattimento, si sorride e si piange. Mi piacciono i ruoli d'azione, anzi avrei voluto che il mio personaggio avesse più scene d'azione; lei comunque cerca di indicare a Valerio la strada giusta, è forte ma anche femminile. Stefano è uno che porta la verità sullo schermo, e riesce a fare in modo che anche l'attore faccia lo stesso.

E Valeria Mei cosa può dirci, invece, del suo lavoro sul set?
Valeria Mei: Il mio ragazzo, che ha assistito alle riprese, diceva che gli sembrava di stare al liceo: è stato tutto molto divertente. Nelle difficoltà ci si avvicina e ci si ritrova, anche umanamente. Fondamentalmente credo che ci siamo tutti divertiti; con mezzi sotto zero, oltretutto, Stefano è riuscito ad ottenere un buon risultato.

Tordi, il suo invece è un personaggio doppiogiochista...
Alberto Tordi: E' stato interessante interpretarlo: un po' come lavorare su due personaggi, il poliziotto ligio al dovere e il tirapiedi del boss spietato.

Maestro Moroni, lei ha coordinato tutte le scene di combattimento del film?
Agostino Moroni: Sì, e il lavoro è stato divertente. Il divertimento è la prima cosa, in qualsiasi attività: quando non c'è, significa che non ci sono più stimoli. L'importante poi è che qualsiasi stimolo sia intrinseco e non estrinseco: deve venire cioè da dentro, e dalla voglia di fare.

Calvagna, Gian Luigi Rondi la definì "il Quentin Tarantino italiano". Cosa ne pensa di questa definizione? C'è davvero qualcosa che l'accomuna a Tarantino? Stefano Calvagna: Io vidi per la prima volta Le iene all'Augustus, ed eravamo in tutto in tre persone in sala. Ne rimasi colpito: nessuno conosceva Tarantino, all'epoca, ma io lo trovai subito geniale e mi colpì molto. Quando feci la mia opera prima, raccontavo di quattro balordi che rapinavano banche, in un periodo in cui andavano per la maggiore le commedie e i film di Leonardo Pieraccioni. Credevo che la critica l'avrebbe massacrato, invece venne fuori Rondi con questo paragone. Ne fui felicissimo, ma devo dire che in realtà non molto ci accomuna: forse, un tratto comune è il non tirarsi indietro quando si tratta di riprendere scene efferate. Lui, comunque, si è ispirato molto al nostro cinema di genere degli anni '70, ai Fernando Di Leo, Enzo G. Castellari e Lucio Fulci.

Del Falco, è più difficile fare lo sportivo o l'attore? Claudio Del Falco: Sono due cose diverse: entrambe difficili ma differenti. Per fare l'attore, va bene l'esercizio ma bisogna anche un po' nascerci. Io sono naturalmente molto "espressivo": proprio per questa mia tendenza, Stefano ha dovuto tenermi un po' a bada.

Il personaggio di Andrea è un po' simile a quello di Giulia Elettra Gorietti ne L'ultimo ultras. E' una cosa voluta? Stefano Calvagna: A dire il vero non ci ho pensato: è un personaggio nato "in corsa", visto che c'era questo giovane attore, Michael Cadeddu, che voleva lavorare con me quando tutti gli altri scappavano. Ora che ci rifletto, comunque, dei punti in comune sicuramente ci sono. Ma non era una cosa voluta.

Lei ha studiato recitazione a New York e poi regia a Los Angeles; inoltre è stato aiuto regista per una serie di successo come Beverly Hills, 90210. Tornerebbe a lavorare negli USA, magari per un'altra serie?
Io preferisco il cinema alle serie, ma in America ci tornerei volentieri, certo. Per le serie mi sono state fatte delle proposte, ma non ho accettato: io preferisco avere più libertà, senza quelli che considero canoni "istituzionali". Negli USA comunque ci tornerei senz'altro, ma per fare cinema.

Gaia Zucchi, la sua carriera è iniziata da molto giovane. Cosa le manca per essere un'artista completa? Gaia Zucchi: Tanto! Ciò che conta è lavorare sempre, perfezionarsi in continuazione. Il mio prossimo film sarà Tonino, sempre con Stefano. Per essere bravi nella recitazione bisogna fare pratica, ma anche studiare tanto.

Calvagna, lei inizialmente lavorava in pellicola, poi è passato al digitale. Che ne pensa di questo salto? Stefano Calvagna: Inizialmente ne sono stato traumatizzato: vedevo il digitale come roba da filmino di matrimonio, o al limite da backstage. Invece è un mezzo che dà grandi risultati, sia a livello artistico che economico; chiaramente bisogna avere anche un ottimo direttore della fotografia. Purtroppo, ora hanno imposto anche una tassa sull'uso di apparecchiature digitali, che non fa che penalizzarci. Questo secondo me è sbagliato, visto che bisogna distinguere tra chi fa cinema finanziato dal ministero, e chi invece produce cinema indipendente. Ci si rende conto che Multiplex, nei primi giorni di programmazione, ha avuto una media per sala più alta di titoli come Blood e Doppio gioco?
Infine, ci tengo a dire una cosa. Io vedo tanti colleghi che "fanno i vaghi", fanno film e poi non si presentano alla stampa, rifiutando il confronto. Io, da quando faccio cinema, non mi sono mai tirato indietro: la conferenze stampa le ho sempre fatte, perché ho sempre ritenuto fondamentale confrontarmi con i giornalisti. Credo che la critica, quando ben argomentata, sia un trait d'union tra regista e critico, che può servire ad entrambi per crescere. Questo, per me, è un punto fondamentale.