Recensione The Story of Film (2012)

Rifiutando un linguaggio tecnico e spesso oscuro, Mark Cousins compone, come prima di lui solo Martin Scorsese, un personale inno all'immagine e al suo incredibile potere narrativo

Una lunga avventura chiamata cinema

Quando nel 1896 i fratelli Lumière iniziarono a portare in tour il loro spettacolo delle immagini in movimento, non avrebbero mai pensato che, più di cento anni dopo, L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat sarebbe stato considerato da un originale documentarista irlandese per iniziare a raccontare una nuova epopea del cinema. Ad essere del tutto onesti, gli ignari Auguste e Louis, non credendo poi tanto nella validità della loro creatura, sarebbero rimasti altrettanto allibiti di fronte alle innovazioni vissute dal cinematografo durante più di un secolo e riproposte da Mark Cousins in una storia lunga ben quindici ore portata sul grande schermo in due capitoli ogni martedì per sette settimane. L'utilizzo del primo piano, i primi poetici effetti speciali di Méliès, i ruggenti anni venti, la nascita dell'industria hollywoodiana, il grandangolo capace di imporre profondità alla narrazione, gli sperimentatori degli anni settanta e l'era moderna del 3D sono solo alcune delle evoluzioni vissute dal cinema e puntualmente registrate all'interno di manuali sempre più dettagliati. Questi, pur essendo alla base di un'opera incredibile come The Story of Film, non rappresentano però l'essenza della sua natura. Anzi, rifiutando un linguaggio tecnico e spesso oscuro, il regista scrive, come prima di lui solo Martin Scorsese, un personale inno all'immagine e al suo incredibile potere narrativo.


Fatto un passo in dietro rispetto alla posizione spesso troppo rigida e incomprensibile degli accademici, il più delle volte impantanati nelle loro teorie, Cousins si sofferma ad ascoltare le sensazioni dello spettatore dando a questo gli strumenti oggettivi e necessari per comprendere la tecnica con cui è stato creata l'illusione del reale e la forza devastante delle emozioni. Il risultato è una intensa lettera d'amore in cui, andando oltre la necessaria divisione in capitoli, si scopre una dichiarazione di totale fedeltà nei confronti del cinema visto nella sua interezza. Da questa visione universale, nasce il lungo viaggio intrapreso attraverso gli stabilimenti di Toho a Tokyo sulle tracce di Kurosawa, i vecchi Studios di Los Angeles per rivivere la golden age delle major e i canali di Parigi, che fecero da set a cielo aperto a molti film degli anni trenta. Luoghi concreti che, montati in alternanza con circa mille spezzoni di film, hanno offerto ai diretti protagonisti la possibilità di raccontare il loro modo d'interpretare il cinema. Indubbiamente, analizzare con Baz Luhrmann in persona la scena dell'acquario in Romeo + Giulietta regala al documentario un'atmosfera più intima e reale. Allo stesso modo, affidare agli sceneggiatori e registi Paul Schrader (Toro Scatenato, L'ultima tentazione di Cristo) e Robert Towne (Chinatown) il compito di condurre lo spettatore attraverso i cambiamenti prodotti dalla Seconda Guerra Mondiale sul cinema italiano e internazionale ha un valore rappresentativo senza precedenti.

Così, ben attento a bandire termini come autore e messinscena, il regista costruisce una struttura all'interno della quale muoversi liberamente tra suggestioni, immagini e critica del cinema in cui è possibile unire la dedrammatizzazione della trama nel Neorealismo, la visione grandangolare di Orson Welles e la natura tutt'altro che indifferente del filosofo Malick. Una sintesi che, andando in qualche modo oltre la definizione di generi, permette una discussione basata più sulla forma e le sue molte varianti. In questa girandola di link cinematografici, è possibile conoscere i registi delle New Hollywood attraverso la ricerca del nuovo e la conferma della tradizione, accomunando Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Roman Polanski e Woody Allen all'interno di un processo che non è mai stato solo ottusamente rivoluzionario. Anzi, attraverso l'esistenzialismo di Taxi Driver, la visione senza speranza di Chinatown e l'apatica generazione de Il laureato si fotografa ancora una società attuale in costante movimento che il cinema , non rimanendo certo a guardare, interpreta, analizza e, decennio dopo decennio, scompone per ricostruire un immaginario nuovo destinato ai chiunque accetti di andare oltre la teoria per lasciarsi semplicemente attraversare dalle emozioni.

Movieplayer.it

4.0/5