Recensione C'era una volta a New York (2013)

Melodramma classico tanto per forma che contenuti, James Gray con The Immigrant racconta una storia semplice, forse non particolarmente originale, affascinato dalla possibilità di portare sul grande schermo elementi della sua storia familiare, oltre che alcune tematiche proprie del suo cinema.

Prigioniera della speranza

Siamo nel 1921, ad Ellis Island, l'isolotto della baia di New York che per oltre sessant'anni è stato il punto d'ingresso per gli emmigrati che dall'Europa cercavano di raggiungere gli Stati Uniti. Ewa e Magda Cybulski arrivano dalla Polonia devastata dalla Grande Guerra pronte a stabilirsi dalla zia che da qualche anno vive a Manhattan, ma proprio quando ormai la strada verso la felicità ed una nuova vita sembra essere ad un passo, i medici dell'ufficio immigrazione diagnosticano a Magda la tubercolosi e la portano via in quarantena. La sorella Ewa, disperata, spera di poter tornare a recuperare Magda con l'aiuto (anche finanziario) della zia, ma un'altra brutta sorpresa l'aspetta quando uno dei funzionari le dice che l'indirizzo che ha conservato in realtà non esiste e che, anche a causa di alcuni presunti problemi creati sulla nave durante il viaggio, dovrà essere deportata. A venirle in aiuto quando tutto sembra perduto è un giovane di nome Bruno, che la porta in salvo da Ellis Island ma in seguito costringe la donna a prostituirsi con la promessa di salvare la sorella una volta guadagnati abbastanza soldi. I veri problemi però cominciano quando Bruno si innamora di Ewa, e nella loro vita irrompe prepotentemente un affascinante prestigiatore di nome Orlando.


Melodramma classico tanto per forma che contenuti, C'era una volta a New York di James Gray racconta una storia semplice, e forse non particolarmente originale, ma in cui tantissimi spettatori americani potranno rivedere elementi della loro storia familiare. D'altronde è questo anche il motivo principale che ha spinto Gray a realizzare questo film, affascinato dalla possibilità di portare sul grande schermo alcune storie e foto di un suo bisnonno, ma alcune tematiche tipiche del suo cinema come appunto l'immigrazione di Little Odessa, il triangolo amoroso di Two Lovers e soprattutto l'interesse per un certo sottobosco criminale e la vita delle classi sociali più disagiate (un primo titolo del film era infatti Low Life).

La novità per la filmografia di Gray è invece quella di avere una donna come protagonista, ma non è certo un caso visto che la sceneggiatura è stata pensata appositamente per la diva Marion Cotillard, compagna di vita di Guillaume Canet insieme al quale Gray ha scritto quel Blood Ties presentato sempre al 66 Festival de Cannes. A lei spetta un ruolo difficile, anche a causa di lunghi dialoghi parlati esclusivamente in polacco: l'attrice padroneggia l'accento e la parlata della sua Ewa ed è come sempre perfetta a far trasparire le emozioni anche solo con uno sguardo od un gesto, ottima nel bilanciare fragilità e sensualità, nel dar voce al dramma di una donna rimasta sola, abbandonata da tutti, privata dei suoi sogni e animata solo dalla speranza di poter salvare la sorella, simbolo di quell'innocenza e purezza che lei ha ormai perduto.
Non altrettanto interessanti i due protagonisti maschili, con Jeremy Renner che per una volta non è chiamato a interpretare un duro o un eroe ma non ha comunque sufficiente spazio per poter brillare; diverso il discorso per Joaquin Phoenix che collabora per la quarta volta con Gray e ha un ruolo in crescendo, più misurato nella parte iniziale e più irruente, ed efficace, nel bel finale.

Dal punto di vista tecnico a colpire sono soprattutto le ricchissime scenografie di Happy Massee che, unite alle scene girate direttamente ad Ellis Island, riescono a rendere viva la New York di un secolo fa, l'impressionante fotografia di Darius Khondji, alcune affascinanti scelte di regia quale l'utilizzo di una colonna sonora esclusivamente da opera lirica o la splendida inquadratura finale che chiude, ed evidenzia, in modo perfetto i destini dei protagonisti. Il risultato visivo è veramente ottimo, tanto da richiamare un film quale Il padrino - Parte seconda; ma rispetto al film di Coppola, a C'era una volta a New York vengono a mancare gli aspetti più importante per un (melo)dramma: il coinvolgimento emotivo, la tensione narrativa, la profondità della caratterizzazione dei personaggi; viene a mancare insomma quell'anima che inevitabilmente differenzia un buon film da un capolavoro.

Movieplayer.it

3.0/5