Recensione Stoker (2013)

Costantemente a metà strada tra le esigenze della sua poetica e quelle di un tradizionalismo hollywoodiano che mette a tacere fin troppi eccessi, il coreano Park Chan-wook non riesce a riprodurre sul volto dei suoi protagonisti le molte ombre di una vicenda famigliare divisa tra horror e thriller psicologico.

Segreti e bugie

La violenza è un problema intorno al quale il cinema si è trovato spesso a discutere. In modo particolare al centro della diatriba tutta intellettuale ci sono le regole, più o meno definite, su come e quanto utilizzarla senza cadere nel compiacimento visivo o nell'inutile esibizionismo. Al di sopra di tutte queste speculazioni, però, alcuni autori sono riusciti a trasformare lo spinoso elemento in un veicolo narrativo indispensabile capace di definire addirittura uno stile personale e una poetica. Uno di questi è , è stato senza ombra di dubbio, il coreano Park Chan-wook che, attraverso la trilogia della vendetta (Mr. Vendetta - Sympathy for Mr. Vengeance, Old Boy, Lady Vendetta) ha dimostrato come l'atto violento può avere varie sfumature, dalle più oscure alle più sofisticate, definendo con forza il percorso imposto ai personaggi e l'andamento stesso di una vicenda altrimenti meno significativa. Alla luce di tutto questo e dei successi ottenuti con il suo lavoro nei festival internazionali, l'incontro tra il cinema senza mezzi termini di Park con quello occidentale più edulcorato ha attratto l'attenzione di molti, sottoponendo Stoker forse a fin troppe aspettative. Il problema è che, dalla fusione tra due diverse realtà culturali e linguistiche, si ottiene quasi sempre un risultato frutto di un compromesso meno incisivo del previsto. Così, come il romanticismo sussurrato e sofferente di Wong Kar-Wai non ha trovato piena soddisfazione espressiva ne Un bacio romantico - My Blueberry Nights, allo stesso modo lo sguardo impietoso del regista di Thirst ha dovuto cedere il passo ad una moderazione troppo evidente in Stoker.


Questo non vuol dire che la sceneggiatura scritta da Wentworth Miller sotto lo pseudonimo Ted Foulke manchi di un certo coraggio narrativo che, però, una volta portato sul grande schermo perde i molta della sua potenzialità. Ispirato da grandi classici come L'ombra del dubbio di Hitchcock o il Dracula di Francis Ford Coppola, Miller prova a comporre un ritratto famigliare inquieto in cui fondere con film dell'orrore, dramma personale e thriller psicologico. Al centro della vicenda c'è la giovane India che, alla morte del padre, si trova a sostenere la fragile emotività di una madre tanto attraente quanto infantile. Diverse esteticamente e caratterialmente, le due donne non riescono a trovare un punto d'incontro, sconosciute e incomprensibili l'una all'altra. All'interno di questa ben ordinata disarmonia subentra l'arrivo dello zio Charlie, fratello mai conosciuto del padre scomparso, destinato a condurre India verso la scoperta di una femminilità pericolosa ed un segreto famigliare che li unisce nel segno di una lucida follia. In questa struttura narrativa la violenza si palesa come un bisogno più che come un atto d'inconsapevolezza, caratterizzando la natura dei personaggi e diventando, in questo modo, un avvenimento emotivamente sconvolgente.

Elemento che Park riesce a far percepire solo in modo discontinuo e velato sotto una patina di manierismo estetico, destinato a "sfinire" lo sguardo dello spettatore. Così, costantemente a metà strada tra le esigenze della sua poetica e quelle di un gusto hollywoodiano che mette a tacere fin troppi eccessi, il regista coreano non riesce a riprodurre sul volto dei suoi protagonisti le molte ombre di questa vicenda. Parlare di qualità somatiche potrebbe sembrare quasi assurdo, eppure la rigidezza mascellare di Mia Wasikowska non regge il confronto con la drammatica inconsapevolezza dell'old boy Choi Min-Sik, mentre attraverso la compostezza fisica e lo sguardo fisso di Matthew Goode lo stimolo omicida rischia di trasformarsi in una parodia sempre troppo annunciata. Unici spunti tematici che riescono a salire in superficie, nonostante una cura ossessiva per l'immagine spesso del tutto inutile ai fini della tensione emotiva, è la sensualità perversa e distruttiva rappresentata dal personaggio di Mia. Nell'allontanarsi dal legame famigliare, scopre non solo il segreto della sua natura ma, soprattutto, il piacere di una sessualità che si accende di fronte alla violenza. Da questo punto di vista, attraverso scarpe evocative di una femminilità rosso sangue e una sonata a quattro mani eroticamente allusiva, Park Chan-wook ritrova il suo tocco facendosi perdonare, anche se per poco, l'occasione persa.

Movieplayer.it

3.0/5