Recensione Non ci indurre in tentazione (2012)

L'esordio nel lungometraggio del giovane N.Santi Amantini tocca i temi di una religiosità laica, mescolandoli ai traumi sepolti nel passato, in quello che è un interessante dramma da camera.

Un 'doppio' rivelatore

Un giovane seminarista in un grande appartamento. La Bibbia in una mano, una sigaretta nell'altra: i versetti della prima recitati quasi con la stessa meccanica, nervosa attitudine con cui viene fumata la seconda. Intorno, effigi religiose, una sala per le preghiere nella quale svetta, tra le altre cose, un ritratto di donna, un pc a riprodurre (altrettanto meccanicamente) filmati porno, una console su cui passa alternativamente un videogioco di guerra e le malinconiche, lontane immagini di Ecce Bombo di Nanni Moretti. Ma gli specchi sono rigorosamente coperti con del nastro adesivo: sigillati, diremmo, perché un doppio malvagio, irrazionale, tentatore, potrebbe da un momento all'altro venirne fuori. Ma quel doppio, come presto il protagonista scoprirà, non si fa certo contenere all'interno di uno specchio: i suoi modi per penetrare lo spazio della casa, e la psiche del giovane seminarista, sono molteplici. La sua malefica presenza rappresenterà il colpo definitivo per la (già traballante) fede del protagonista?


Dopo una lunga gavetta fatta di cortometraggi, documentari e collaborazioni con altri registi (tra queste, ricordiamo la direzione della fotografia dell'horror In The Market) il giovane N. Santi Amantini decide di fare il grande passo ed esordire nel lungometraggio. Lo fa dilatando, e al contempo riadattando, l'idea di base del suo cortometraggio William Wilson (a sua volta liberamente ispirato all'omonimo racconto di Edgar Allan Poe): un'unica location, un personaggio che interpreta due ruoli in conflitto. Non ci indurre in tentazione è un dramma da camera asciutto, minimale nella messa in scena, tutto giocato in uno spazio che diviene per il protagonista claustrofobica prigione. I modelli del regista (e del co-sceneggiatore, e protagonista, Lorenzo Berti) sono alti: la messa in scena occhieggia a modelli più o meno dichiaratamente hitchcockiani, mentre le tematiche sono quelle di una religiosità laica che deve qualcosa ai capolavori di Ingmar Bergman. Ambizioni, e punti di riferimento, ingombranti? Forse, ma all'opera prima di Amantini non manca una certa eleganza: morbidi movimenti di macchina, primi piani a scrutare il volto tormentato del protagonista, un "quasi bianco e nero" (tonalità desaturate che quasi si dissolvono l'una nell'altra) che getta una calcolata freddezza sul tutto.

Non è freddo, invece, il tema del film: l'odissea di un (giovane) uomo tormentato da una visione della fede che è, forse, pretesto per altro. Un lutto non elaborato, il dolore per la separazione da una madre con cui aveva sviluppato un rapporto complesso, e con tratti di morbosità. Lo sdoppiamento, e la schizofrenia, con un alter ego che assume le fattezze di un demone tentatore: sguardo folle, scritte e disegni tracciati sulla pelle, parole che affondano la lama nella contraddittoria esistenza del suo doppio. La morbosità che porta il protagonista ad indossare gli abiti di sua madre, l'assenza di un dio tante volte invocato, che conduce alla solitudine della masturbazione, la menzogna di una fede che è surrogato di una mancanza, e che proietta fuori di sé la sua parte ferita, deturpata. Pericolosa, perché ormai (di fatto) arresa. La sceneggiatura sovrappone la ricerca del trascendente ai traumi di una vita menomata, e mostra la colpevole ingenuità di un personaggio che ha finito per credere alle sue stesse macchinazioni. Ma la fede, così declinata, non è altro che un'effige, una croce che può essere rovesciata per simboleggiare il suo contrario (per poi essere rimessa al suo posto); e il ricordo, pulsante di dolore e non rielaborato, è un ritratto che diventa, di volta in volta, oggetto da venerare o osceno feticcio da deturpare.
Nei suoi 77 minuti di durata, Non ci indurre in tentazione offre un coté visivo elegante, malgrado la sua voluta essenzialità, una certa cura fotografica, e il coraggio da parte del suo autore di proporre (specie come film d'esordio) un progetto quasi anti-narrativo. Il doppio ruolo porta qualche difficoltà al protagonista, più efficace nella sua versione "buona" (virgolette d'obbligo), ma portato pericolosamente a strafare in quella negativa. Quest'ultima poteva forse essere sviluppata maggiormente, oltre a necessitare uno spazio quantitativamente maggiore sullo schermo: per una volta, qualche minuto in più avrebbe probabilmente giovato al film, specie per come ha sostanzialmente ben retto l'unità di location e la presenza di un singolo attore. Restano comunque da lodare il coraggio dell'operazione, piuttosto insolita anche nel ristretto ambito del panorama indipendente italiano, nonché un finale intelligentemente ambiguo, poco conciliatorio e in linea, in questo, col resto della pellicola.

Movieplayer.it

3.0/5