Recensione George Harrison: Living in the Material World (2011)

Martin Scorsese si è fatto invisibile per raccontare la storia di un chitarrista 'innovativo' (la definizione è dell'amico Eric Clapton), una persona generosa e spirituale, ma anche un essere umano pieno di contraddizioni, rabbia e frustrazione.

Here comes George

Un altro documentario su una leggenda del rock? Non proprio. Se dietro alla macchina da presa c'è un regista legatissimo al mondo della musica come Martin Scorsese, ben si spiega la grande attesa per Living in the Material World: George Harrison, proiettato al Torino Film Festival nella sezione Paesaggio con Figure; un'opera che nonostante la sua canonicità riesce a restituire la complessità del chitarrista dei Beatles, scomparso il 29 novembre del 2001 a causa di una grave malattia. Prodotto dall'encomiabile HBO, che l'ha trasmesso in due serate il 5 e 6 ottobre scorsi, il documentario non è rivoluzionario tanto nella forma, quanto nella capacità di sottolineare l'unicità di questo personaggio fondamentale per la storia dei Fab Four. Martin Scorsese si è fatto invisibile per raccontare la storia di un chitarrista 'innovativo' (la definizione è dell'amico Eric Clapton), una persona generosa e spirituale, ma anche un essere umano pieno di contraddizioni, rabbia e frustrazione. E' un ritratto che si compone pezzo per pezzo sotto i nostri occhi quello di George Harrison, chitarrista dei Beatles, vale a dire membro del più leggendario gruppo della storia della rock, musicista a tutto tondo, produttore cinematografico per un'altra banda di inglesi scapestrati, i Monty Python. Il cineasta newyorchese è riuscito a raccogliere una vasta quantità di materiale, tra interviste, fotografie e filmati (molti dei quali inediti). Circa tre ore di storia per raccogliere una sfida affatto facile; raccontare l'identità umana e musicale di un artista 'costretto' a condividere la sua fama con altri tre compagni di viaggio, John Lennon, Paul McCartney e Ringo Starr, senza per questo perdere mai di vista la sua particolarità.


Il lavoro di Scorsese vive delle testimonianze dei suoi amici più cari: l'ex moglie Patti Boyd, il figlio Dhani e l'ultima moglie Olivia Arias, per citare i familiari più stretti. Ma ci sono anche Terry Gilliam e il pilota Jackie Stewart, Tom Petty, che con Harrison ha vissuto l'esperienza dei Traveling Wilburys assieme a Bob Dylan e Roy Orbison. Per non parlare di Phil Spector, George Martin e Joan Taylor, moglie dell'addetto stampa dei Fab Four, Derek Taylor, testimone non si sa quanto involontaria dei primi esperimenti del quartetto con LSD, nella villa del manager Brian Epstein. Storicamente lineare, l'opera si apre con le immagini di un'Inghilterra devastata dalla Seconda Guerra Mondiale. E' quello il posto dove George Harrison nasce il 25 febbraio del 1943, ultimo di una famiglia molto povera di Liverpool; una nazione ancora arroccata agli onori del passato ma pronta ai grandi cambiamenti che sarebbero arrivati di lì a qualche anno; trasformazioni che avrebbero trovato un degno accompagnamento musicale nelle note di quei quattro ragazzi nati nella piccola cittadina portuale. Non è un caso, e il documentario lo riporta fedelmente, se il giorno dello scioglimento dei Beatles un reporter televisivo inglese ha parlato del punto più basso toccato nella storia dell'impero britannico. Ma è di George che si parla in Living in the Material World e il brano che Scorsese sceglie per accompagnare questo primo tratto, All Things Must Pass, tratto dal suo terzo album da solista, datato 1970, la dice lunga sulla filosofia di vita di un uomo abituato ad accettare con lo stesso piglio il trionfo (e ha conosciuto quello vero) e i dolori della vita. Sunrise doesn't last all morning, l'alba non dura tutto il giorno recita uno dei versi della canzone; come dire, ciò che è bello non dura in eterno e va vissuto senza remore né tentennamenti; così come non sono eterni i momenti difficili, quel grigio che vola via.

Sono decine gli aneddoti che emergono da questo ininterrotto flusso di immagini e musica (difficilmente eguagliabile). Grazie al racconto di Paul McCartney apprendiamo che è stato George Harrison a scrivere il du du du du di sottofondo in And I Love Her, quel riff che rende il pezzo indimenticabile. Sir 'Macca' poi racconta senza nascondere il divertimento il primo provino di George al cospetto di John Lennon, sl pisno di sopra di un double decker che girava di notte a Liverpool. Harrison conquistò Lennon accennando il riff di Rauchy, motivo che noi spettatori ascoltiamo mentre McCartney fa il gesto di suonare la chitarra. Tra i momenti più emozionanti, il ricordo di Ringo Starr che non ha saputo trattenere le lacrime ricordando l'ultimo giorno in cui ha parlato con Harrison. Incisivo anche il contributo di Astrid Kircherr, la bella fotografa-pittrice tedesca che incontrò i Beatles nella loro trasferta di Amburgo, intrecciando una relazione con l'ex membro della band Stuart Sucliffe, tragicamente scomparso nel 1962. Nei giorni successivi alla morte di Sutcliffe la Kircherr scattò alcune delle foto più belle di George e John, il cui forte legame emergeva senza maschere in quelle immagini in bianco e nero. Il documentario dà il giusto spazio al celebre triangolo sentimentale fra Harrison, la moglie Patti, ed Eric Clapton, rimasto amico fraterno di George anche quando gli ha 'rubato' Patti e dopo la conversione di Harrison all'induismo. Una scelta che all'inizio poteva sembrare la presa di posizione di un artista come tanti all'epoca, ma che col tempo è diventata una vera assunzione di responsabilità da parte del musicista, che in più di una occasione, soprattutto nel leggendario concerto per il Bangladesh organizzato assieme a Ravi Shankar, ha dato il suo appoggio a svariate cause umanitarie. Non era affatto una causa umanitaria, ma la solo l'ennesima dimostrazione di stima nei confronti di un gruppo di artisti di razza, la scelta di produrre il cult dei Monty Python, Brian di Nazareth. Quando la Emi si è defilata a causa della 'blasfemia' della storia, Harrison ipotecò la sua casa per fondare la HandMade Film e raccogliere i 4 milioni di dollari che sarebbero serviti a Terry Gilliam e soci per continuare le riprese in Tunisia. Ma queste sono solo alcune delle istantanee più belle del documentario, un lavoro forse meno 'caratterizzato' rispetto ad altre opere musicali di Scorsese (L'ultimo valzer, No Direction Home: Bob Dylan, Shine a Light), eppure capace di tracciare con semplicità il ritratto di un artista unico.

Movieplayer.it

4.0/5