Recensione Gravity (2013)

A sette anni dalla sua ultima regia, Alfonso Cuaròn torna con un progetto personale e affascinante, un thriller fantascientifico dalle forte implicazioni umane e psicologiche.

I figli dello spazio

Doveva essere una missione spaziale di routine, quella che ha visto coinvolti la dottoressa Ryan Stone, brillante scienziata alla sua prima missione a bordo di uno shuttle, e l'esperto astronauta Matt Kovalsky. Tuttavia, a pochi giorni dal rientro sulla Terra, e durante una normale operazione di manutenzione, accade l'impensato: un incidente avvenuto a centinaia di chilometri di distanza, che ha coinvolto una nave spaziale russa, provoca una dispersione di detriti che presto colpiranno il veicolo americano. I due, investiti dalla tempesta di detriti, non fanno in tempo a rientrare nell'astronave, ma ciò si rivela un bene: l'equipaggio viene completamente sterminato dalla furia della tempesta, la nave è distrutta. Unici superstiti, si ritrovano a vagare nello spazio, privi di contatti con la Terra e con scorte limitatissime di ossigeno; loro unica speranza sarà quella di raggiungere una base cinese sita a una notevole distanza, attraverso la quale tentare il ritorno sul pianeta. Ma, oltre alle difficoltà derivanti dalla situazione, il loro principale nemico sarà l'angoscia di ritrovarsi da soli, alla deriva, nelle immensità del cosmo.


Sette anni dopo I figli degli uomini, e dopo essere rimasto saggiamente lontano dalle sirene dello show-biz hollywoodiano, Alfonso Cuarón torna alla regia con un nuovo progetto di marca sci-fi. Ancora una volta, il regista di Y tu mamà también adotta una struttura di genere, servendosi di nomi di gran richiamo (qui George Clooney e Sandra Bullock) per proporre un'opera dal forte taglio personale, visivamente di grande impatto. Il lungo piano sequenza iniziale, che ci trasporta intorno e fuori dall'astronave dei due protagonisti, facendocene lambire le forme e lentamente dando un volto alle voci, dapprima incorporee, che sentiamo discutere e scambiarsi battute, è una perfetta introduzione all'universo del film; nonché a quello che sarà per massima parte il suo setting, ovvero lo spazio e le profondità del cosmo. Da un regista come Cuarón, da sempre così attento all'aspetto visivo e scenografico delle sue opere, era lecito aspettarsi un uso quantomeno funzionale e ragionato del 3D: e in questo caso, infatti, la stereoscopia dà sostanza alla costruzione scenografica del film, con un ottimo lavoro sulle forme e sulla consistenza degli oggetti, valorizzando anche le ridotte parti girate in interni (le astronavi) utilizzando un buon senso della profondità.

Gravity ha il canovaccio di un prodotto di genere, il più classico dei thriller ad ambientazione fantascientifica, pur se atipico nello svolgimento. Lo scopo del regista era infatti quello di mettere in scena, attraverso il tormento della protagonista costretta a vagare senza meta nel cosmo, sradicata e destinata fatalmente a scomparire, una metafora sulla necessità di radici e di una direzione precisa. I continui rimandi alla vita sulla Terra, e il graduale disvelamento del background del personaggio, vanno in questa direzione: al punto di fare del film quasi una ricognizione psicanalitica sul carattere della protagonista, mascherata da racconto di fantascienza. Così, dalla "triangolazione" iniziale (di corpi e voci) che vedeva coinvolti la Bullock, Clooney, e l'incorporea presenza dell'ufficiale di Houston (che ha la voce di Ed Harris) si passa dapprima al confronto tra i primi due, e successivamente alla concentrazione esclusiva sul personaggio femminile, di cui ci vengono svelate motivazioni, disillusioni e angosce. Metafora scoperta, a volte forse troppo esplicita nel suo svolgimento (e tale da togliere forza all'altro personaggio principale) ma comunque funzionale agli obiettivi del film.
Al netto di qualche eccesso o momento ai limiti del kitsch (le lacrime della protagonista "tridimensionalizzate" erano un dettaglio francamente evitabile) Gravity resta comunque, anche dal punto di vista dell'intrattenimento, un thriller di buona fattura: molto efficace nel trasmettere tutto il senso "fisico" dell'angoscia, dell'orrore e del disperato senso di solitudine derivante dal trovarsi immersi (da soli) in un infinito senza forma e senza vita; ottimo anche nella messa in scena di sequenze d'azione che hanno nei due protagonisti, e nelle loro reazioni, i loro ideali terminali. Un compito non facile, quello affidato a Clooney e Bullock, di recitare per gran parte del film all'interno di una tuta che limita non solo l'espressività facciale (spesso solo intuibile dietro il vetro dei caschi) ma anche, per larga parte, quella fisica. Lo script, opera del regista e di suo figlio, il quasi esordiente Jonàs Cuarón, pur prendendosi i suoi rischi di eccessivo didascalismo, riesce alla fine a narrare una storia di speranza e riscatto personale, in una forma fruibile e affascinante come quella della science fiction. Un risultato che, con premesse che presentavano più di un rischio, può essere considerato sicuramente soddisfacente.

Movieplayer.it

3.0/5