Recensione Faust (2011)

Il film di Sokurov non è una vera e propria trasposizione dell'opera di Goethe, ma una trattazione filosofica sulle ambizioni di un essere umano rappresentato come creatura più che mai fallace, in un contesto in cui tutto intorno a lui sembra caratterizzato da disfacimento.

L'onnipresenza del male

Ambizione e potere. Due elementi che vanno spesso a braccetto, nel cinema come in qualsiasi altro campo dell'esistenza: l'ambizione della conoscenza, l'ebrezza di avvicinarsi ancora di un altro passo alla divinità, il potere che ne deriva. Anche Aleksandr Sokurov è un regista ambizioso, e ne ha ben donde: il grande cineasta russo, noto al pubblico internazionale soprattutto per il rivoluzionario esperimento di Arca russa (in cui mescolava in modo magistrale classicismo e cinema digitale, affresco storico e approccio postmoderno alla messa in scena) ha sviluppato nel corso degli anni la sua tetralogia sul potere: a Moloch (1999), Taurus (2000) e Il sole (2005), dedicati rispettivamente alle figure di Adolf Hitler, Vladimir Lenin e l'Imperatore Hirohito, segue ora la sua interpretazione del Faust, liberamente ispirata alla tragedia di Johann Wolfgang Von Goethe. Un cortocircuito interessante, quello tra il regista che si confronta con un mito della letteratura piegandolo alla sua visione cinematografica, e l'integerrimo dottore che si accorda con un demone per soddisfare i piaceri della carne, ma anche per estendere la sua brama di conoscenza oltre i limiti dello scibile umano. Il film di Sokurov non è una vera e propria trasposizione dell'opera di Goethe, ma una trattazione filosofica sulle ambizioni di un essere umano rappresentato come creatura più che mai fallace, in un contesto in cui tutto intorno a lui sembra caratterizzato da disfacimento.


In effetti, la prima cosa che salta all'occhio della pellicola di Sokurov è il contrasto tra l'estrema ricercatezza delle immagini e la sporcizia, il sudiciume e la sensazione di disfacimento che queste trasmettono. Sembra folle nutrire una qualche forma di speranza in un mondo come quello di Faust, in cui lo studio di un medico somiglia a una stanza delle torture, con strumenti del tutto analoghi a quelli in uso per i supplizi medievali, in cui morte e violenza regnano ovunque, in cui persino il corpo umano, più che una creazione divina, sembra un putrido ammasso di organi nel quale invano si cerca un'anima. E' quasi superfluo che il diavolo si manifesti in una forma (pseudo)umana, in un mondo del genere: Mefistofele è ovunque, mentre Dio, come la sua stessa controparte si incarica di ricordarci, non è da nessuna parte. Eppure, Sokurov sceglie conseguentemente di mostrare un diavolo più laido e sgradevole possibile, un vecchio storpio che emette flatulenze e profana i luoghi sacri con le sue necessità corporali, con un corpo deforme che sembra urlare l'assenza di armonia e bellezza nel creato, e un fare viscido e infingardo, tale da ispirare un'istintiva repulsione. Eppure, questo mostro dalla forma umana sembra l'unico individuo capace di condividere i dubbi e le tensioni del protagonista sull'esistenza, sul creato e su Dio, e di trasmettergli il potere che segretamente ha sempre bramato. Potere sulla vita e sulla morte degli altri esseri umani, innanzitutto, ma anche sulla volontà di una donna che nel corso della storia si trasforma lentamente in un'ossessione.

Come si diceva, colpisce in questo Faust sokuroviano il modo esteticamente ricercatissimo con cui il regista rappresenta la bruttezza e l'orrore del mondo: l'inquadratura ha un gusto pittorico, ogni elemento del quadro è attentamente studiato, la fotografia fa un largo uso di filtri che le danno di volta in volta di tonalità diverse (ma il verde è il colore dominante) mentre le lenti deformanti conferiscono un tono onirico e da incubo al racconto. Tono che viene espresso anche dai dialoghi, serrati e continui, spesso ardui da seguire perché volutamente sovrapposti l'uno all'altro, quasi a voler iperrealisticamente sottolineare il caos e la mancanza di punti di riferimenti che regnano nel mondo del dottore. La sequenza finale rappresenta forse l'inferno, forse quel mondo che Faust si appresta a dominare, con la presunzione di poter prescindere, nella sua ormai cieca brama di potere, anche dall'accordo siglato col suo repellente compagno. La differenza è sempre più labile, il risultato sarà probabilmente lo stesso: l'anima dell'ormai ex medico non ha possibilità di salvezza. Ma questo, pur prescindendo dalla conoscenza del mito originario, era con tutta evidenza l'unico risultato possibile.

Movieplayer.it

4.0/5