Recensione Conan the Barbarian 3D (2011)

Marcus Nispel cerca di smarcarsi dal ricordo del film di Milius, mettendo in evidenza nell'intreccio le differenze nella sua versione della storia, e introducendo il film con una lunga cronistoria dell'universo di Hyboria: ma il film soffre di un'evidente mancanza di epicità.

Ricomincio da Hyboria

In epoca di remake e reboot, un'icona come quella di Conan, guerriero fantasy uscito dalla penna dello scrittore Robert E. Howard nel 1932, non poteva essere ignorata dalla macchina produttiva hollywoodiana. La precedente incarnazione cinematografica del personaggio (senza contare il relativo sequel), quel Conan il barbaro che nel 1982 fece conoscere al mondo i muscoli di Arnold Schwarzenegger, aveva d'altronde tutti i crismi del classico, ed era diretta da un regista, quale John Milius, che masticava l'epica cinematografica come pochi. Una pellicola come questo Conan the Barbarian, quindi, avrebbe inevitabilmente risentito del paragone col film di Milius, nonostante i produttori e il regista Marcus Nispel abbiano da subito voluto specificare che la loro è una nuova visione dell'universo creato da Howard, e non un film direttamente ispirato a quello del 1982. La trama, d'altronde, presenta un canovaccio abbastanza simile a quello del film diretto da Milius: il giovanissimo Conan, venuto al mondo durante una battaglia nutrendosi del sangue della morente madre, è testimone del saccheggio del suo villaggio e dell'assassinio di suo padre ad opera del malvagio Khalar Zym, stregone che vuole regnare su Hyboria riunendo i pezzi di un'antichissima maschera. Anni dopo Conan, divenuto un cinico barbaro e affiancato dal pirata Artus, parte alla ricerca dell'assassino di suo padre, deciso a consumare la sua vendetta.


Non è la prima volta che il regista Nispel si trova alle prese con un remake (perché, volenti o nolenti, è di questo che stiamo parlando): va tuttavia detto che, se il Non aprite quella porta del 2003, pur non brillando per originalità, si era rivelato un rifacimento dignitoso e rispettoso dell'originale, il reboot di Venerdì 13 aveva detto poco o nulla di nuovo sul soggetto, finendo per confondersi coi tanti altri episodi della saga originale. In questo caso, Nispel cerca di smarcarsi dal ricordo del film di Milius, mettendo in evidenza nell'intreccio le pur presenti differenze nella sua versione della storia, e introducendo il film con una lunga cronistoria dell'universo di Hyboria, con una scelta che recupera in chiave epica un espediente sempre valido come quello della voice over. Il problema principale da subito evidenziato da questo film, tuttavia, sta proprio nell'evidente mancanza di epicità, principalmente a causa di una narrazione che, una volta entrata nel vivo, si appiattisce su una serie di roboanti e alla lunga stancanti sequenze d'azione. L'ipertrofia della messa in scena delle battaglie, il ritmo forzatamente sovraccarico e poco rispettoso di regole narrative di base per un racconto epico (che vuole anche delle pause) finiscono per banalizzare il tutto e generare inopinatamente noia nello spettatore. Non si riesce ad appassionarsi a una vendetta che pare solo la fase conclusiva di un lungo videogioco d'azione diviso in livelli, con dialoghi banali e senza il tentativo di creare un vero e proprio climax.

Se il Conan del 1982 sfruttava l'inespressività del suo interprete per delineare un personaggio statuario, dalle poche parole ma costruito in modo da valorizzare al massimo la fisicità di un attore come Schwarzenegger, qui l'ottica viene rovesciata: il protagonista è cinico, beffardo e ostentatamente amorale, ha la battuta pronta e le motivazioni profonde della sua vendetta vengono lasciate volutamente nell'ombra. Tuttavia, al di là dei limiti di una sceneggiatura che sacrifica i dialoghi e lascia poco spazio a una definizione accurata del personaggio, un attore come Jason Momoa non sembra avere il carisma necessario per incarnare questa nuova versione del barbaro creato da Howard: se pure il fisico è (inevitabilmente) quello adatto, la presenza scenica di Momoa si rivela piuttosto insignificante, e non si riesce mai a smarcarsi dalla sensazione di vedere all'opera un comprimario assurto per errore al ruolo di protagonista. Le stesse, limitate interazioni con gli altri personaggi della storia (a partire dall'amico Artus, per arrivare alla donna interpretata da Rachel Nichols, protagonista di una poco approfondita sottotrama sentimentale) non aiutano in questo senso un'identificazione che sembra anche poco ricercata a livello di script. Se lo spazio riservato a Ron Perlman, interprete del padre del protagonista, viene dilatato il più possibile nelle battute iniziali della storia, poco si ricorda dei due villain Stephen Lang e Rose McGowan, non tanto per colpa loro quanto di una carente definizione dei loro personaggi.
Resta comunque, di questo complessivamente deludente Conan the Barbarian, una certa cura scenografica e più in generale di "confezione", con una commistione di set naturali (ripresi prevalentemente da location site in Bulgaria) e ricostruzioni digitali che catturano abbastanza efficacemente, a livello visivo, il mood dell'universo del personaggio e più in generale di quella particolare declinazione del fantasy definita sword and sorcery. Quello che paradossalmente manca, in un film che presenta dosi massicce (e, lo ripetiamo, spesso eccessive) di azione e scontri fisici, è quel coinvolgimento emotivo che faccia apparire reali la carne e il sangue, che doni spessore a quelle che altrimenti restano solo figurine che si muovono in un universo fittizio. Di carta, e quindi da dimenticare presto.

Movieplayer.it

2.0/5