Recensione Cloud Atlas (2012)

Quattro anni dopo il poco fortunato Speed Racer, i fratelli Wachowski tornano alla regia coadiuvati da Tom Tykwer, con un prodotto insolito e riuscito, che unisce e giustappone influenze diverse ed eterogenee.

Una partitura tra le epoche

Il ritorno al cinema dei fratelli Wachowski, quattro anni dopo il poco fortunato Speed Racer, destava non poca curiosità. Il motivo principale non era tanto il chiacchierato "adeguamento di genere" di Lana Wachowski (ex Larry) o lo scetticismo di molta critica su due registi che obiettivamente, dopo il primo Matrix, avevano fatto vedere pochino (sequel compresi). A destare curiosità, di Cloud Atlas, è stato dapprima il mistero in cui, per lungo tempo, è rimasta avvolta l'intera produzione (foto centellinate, poche interviste, primo trailer mostrato a luglio) e poi l'effettiva peculiarità di un progetto che, una volta che ne sono stati svelati i tratti, è apparso più che mai ambizioso: un excursus storico/contemporaneo/sci-fi tra le epoche, sei storie differenti tra loro, spazianti tra l'Ottocento e un futuro post-apocalittico, ma interconnesse; un romanzo ispiratore (L'atlante delle nuvole di David Mitchell) effettivamente difficile da trasporre in immagini. In più, l'effettiva suggestione del trailer mostrato, l'evidente sforzo produttivo di un film nato come progetto indipendente, la co-regia di un cineasta originale e non allineato come Tom Tykwer. (anche co-produttore con la sua X-Filme). E poi, diciamocelo, ai Wachowski non si può non voler bene almeno un po': per furbo, ridondante e sopravvalutato che fosse, il loro film più famoso ha comunque dato una svolta a tutto il cinema sci-fi successivo, segnandone, nel bene e nel male, l'intero immaginario.


Un'operazione come quella di Cloud Atlas si segnala subito per le sue notevoli ambizioni, tanto in termini di durata (circa tre ore di pellicola) e di dimensioni del progetto, quanto a livello di contaminazione di generi e di immaginari. Stordisce, già dalle prime immagini, la varietà e l'eterogeneità di ambientazioni, ricondotte a tradizioni cinematografiche assolutamente difformi (il film storico/avventuroso, il dramma in costume, il noir e la fantascienza) assemblate in un montaggio rapido e dal carattere (apparentemente) quasi schizoide. Appare subito evidente che la contaminazione portata avanti da questo film è ben diversa da quella di Matrix: laddove il cult interpretato da Keanu Reeves operava una sintesi, pur nella loro varietà, delle sue diverse influenze, a dominare qui è la giustapposizione, esplicita e quasi violenta. In un periodo in cui la globalizzazione cinematografica fagocita (e spesso normalizza) immaginari "altri", neutralizzandone il più delle volte la carica eversiva, i Wachowski e Tykwer scelgono una strada diversa, componendo un collage eterogeneo e proprio per questo tanto più spiazzante. E può risultare, in effetti, spiazzante e disorientante l'avvio del film, che dopo la partenza della narrazione-contenitore, ad opera di un irriconoscibile Tom Hanks, fa un rapidissimo montaggio che dà inizio alle sei storie, alcune delle quali vengono narrate in flashback.

Ci si abitua presto, tuttavia, se si ha la pazienza di stare al gioco dei tre registi, alla modalità con cui le sei vicende vengono narrate: agli incastri e ai salti temporali siamo in fondo abituati da decenni, pur se qui il ritmo e l'eterogeneità del materiale presentato danno al tutto un sapore decisamente diverso. Un sapore che, va detto, spesso inebria, a tratti entusiasma: l'essere riusciti a dare al film, pur con toni e mood così diversi (e con due distinte troupe, rispettivamente guidate dai Wachowski e da Tykwer, a operare in modo indipendente e parallelo) un ritmo costante e culminante in un climax, è sicuramente un titolo di merito; segno, questo, di un ottimo lavoro di montaggio, aspetto che si segnala da subito come l'elemento più interessante del film. Come una partitura (quella che il musicista interpretato da Ben Whishaw compone per il suo tirannico datore di lavoro, col volto di Jim Broadbent) le diverse storie del film sono assemblate in modo da evitare dissonanze, malgrado la loro continua, quasi frenetica alternanza. L'intelligenza della sceneggiatura è stata anche quella di evitare in larga parte i collegamenti troppo diretti ed espliciti, ridotti a un personaggio (quello interpretato da James D'Arcy) che troviamo, in periodi diversi della sua vita, in due storie distinte, e al rimando, presente nell'episodio ambientato nel futuro più lontano, a un personaggio-chiave di quello ad esso, cronologicamente, più vicino.

Non avrebbe molto senso, data la peculiare struttura narrativa di questo Cloud Atlas, stare a descrivere nel dettaglio i plot delle diverse storie; caratterizzate, lo ripetiamo, da una spinta eterogeneità e da rimandi e legature che risultano tematiche più che narrative. Si può comunque sottolineare l'abilità di un cast ricco e camaleontico, con più ruoli (caratterizzati anche da cambi di sesso) interpretati da ogni singolo attore: oltre a quelli citati, vanno ricordati (tra gli altri) un Jim Sturgess che è alternativamente marinaio e giovane rivoluzionario, una Halle Berry reporter nel presente e preveggente nel futuro, un Hugo Weaving che veste sia i panni di un reverendo schiavista che quelli di una diabolica infermiera. Si può certo perdonare al film, in una struttura comunque, complessivamente, ben congegnata, qualche caduta di tono in singole sequenze, nonché alcuni momenti forse gratuitamente pulp (tra questi, la comunque divertente fine dello spocchioso critico letterario, che dà l'avvio all'episodio con protagonista Jim Broadbent). Le tre ore di questa insolita, frenetica e ammaliante partitura tra le epoche, comunque catturano e intrattengono con stile. La freschezza e l'originalità dello sguardo, insoliti in una produzione di tali dimensioni, rappresentano poi un ulteriore, importante elemento di interesse.

Movieplayer.it

3.0/5