Recensione Bar Sport (2011)

La fedeltà al testo è pressocché totale, ma non mette al riparo il film di Martelli da una lunga serie di pericoli, il primo, il più grave, l'assenza di reali momenti comici.

Eravamo tanti amici al bar

Per fare un Bar Sport ci vogliono tre cose. La prima, un bar. Uno di quelli normali, con il bancone, i tavoli, le sedie, il telefono e via di seguito. Magari, lo si inaugura in una giornata di estate. La seconda, un'insegna che non funzioni; qualcosa che faccia capire che il bar sport è effettivamente quello, ma non troppo chiara, che insomma ti faccia porre qualche domanda. La terza, la più importante, un tecnico, o meglio un tennico, figura mitologica che si evoca (o si automanifesta) ogni qual volta ci sia una discussione, un confronto, un interrogativo da risolvere. Al suo cospetto passa in secondo piano perfino il proprietario del bar, fai conto un Antonio detto Onassis per l'insana tendenza al braccino corto. Stabiliti questi punti cardine, tutti gli altri figuranti vengono da sé. Il playboy da balera e le vecchiette all'arsenico, l'inventore che gioca al flipper e il tutto fare, l'innamorato depresso e il nonnino che sputa, la generosa Elvira e il Cinno, il ragazzo di bottega obbligato ad andare in bici senza mani e, infine, ma non meno importante, il malcapitato che mangia la Luisona, la pasta da bar, quindi ontologicamente decorativa, che una volta ingurgitata si autodisintegra nell'apparato digerente del poveretto.


Ci sono voluti tre anni e mezzo per convincere Stefano Benni e per trasformare in film uno dei suoi libri più amati, Bar Sport. Artefice del miracolo, un bolognese purosangue, Massimo Martelli, un passato di documentarista e di autore televisivo brillante. Non fatichiamo a credere quali siano stati gli aspetti che hanno affascinato il regista, coadiuvato in questo coraggioso tentativo da Giannandrea Pecorelli, Nicola Alvau e Michele Pellegrini; sono gli stessi che hanno ammaliato svariate generazioni di lettori, innamorati di quel mondo bislacco e soprattutto delle parole che Benni ha scelto per raccontarlo. Una comicità, la sua, che è tutta nei giochi linguistici, nell'assurdità delle situazioni delineate, nelle immagini evocative, così preziose da spingere il cineasta ad un rispetto e ad una deferenza genuini; tuttavia non possiamo non definire deludente l'intera operazione, che si trasforma purtroppo in una grande occasione sprecata.

Compattando un minimo la storia originale, ma rimanendo fedele alla sua struttura rapsodica, Martelli costruisce un film che solo superficialmente riesce a mostrare la magia di quell'universo. Non stiamo parlando dell'annoso tema della fedeltà ad un testo o del suo tradimento; il punto è non appiattire quello che nasce per essere tridimensionale. Il film non rinnega lo spirito di Benni, anzi, ma lo livella, tentando di riproporlo senza averne il guizzo. Del caleidoscopico cosmo dello scrittore bolognese non restano che simpatiche figurine simboliche che, slegate da quel contesto, appaiono fiacche e giù di corda, eroi stravaganti in azione su un palcoscenico vintage. L'opera di Martelli soffre soprattutto per l'assenza di reali momenti comici. L'arguzia che abbonda nel racconto di Benni viene così trattenuta, raffreddata, e privata di quel pizzico di sana nostalgia. Pubblicato nel 1976, il non-romanzo di Benni si gusta ancora oggi con trasporto e affetto grazie a quella strana alchimia che si instaura tra lettore e scrittore e a quel senso di rimpianto per i tempi passati, fortissimo anche in un libro innovativo e 'moderno' per la sua epoca di riferimento. Gli inserti animati dedicati alle favole di Piva e Pozzi, realizzati e diretti da Giuseppe Maurizio Laganà, non bastano da soli a colmare questa lacuna e appaiono slegati dal film. Ci si aspettava qualcosa di più anche dagli attori apparsi nell'insieme un po' stanchi e sottotono. Se Claudio Bisio incarna alla perfezione l'umorismo benniano, di contro Giuseppe Battiston sembra spaesato. Forse sarebbe bastato affidare al primo la voce fuori campo al posto del monocorde Battiston, per avere un cambio di marcia. Con le pause, il colore delle intonazioni, Bisio avrebbe acceso i motti del 'suo' Benni. Bloccati da questa morsa anche Antonio Catania e Antonio Cornacchione che avrebbero potuto sfruttare meglio i rispettivi personaggi Muzzi e Bovinelli. Ricominciamo, allora. Per fare un Bar Sport ci vogliono tre cose....

Movieplayer.it

2.0/5