L'umorismo yiddish di Dani Levy

Il regista tedesco ha presentato a Roma, dove ha incontrato la stampa, la sua irriverente e irresistibile commedia che prende in giro la cultura ebraica.

Nessuno si sarebbe mai aspettato che un regista tedesco arrivasse a prendere in giro gli ebrei in una folle commedia politically uncorrect. Lo ha fatto Dani Levy ed è stato un successo clamoroso. Vincitore di sei Lola (i German Film Awards) e campione di incassi in patria, Zucker! ...come diventare ebreo in 7 giorni è un'irresistibile commedia degli equivoci che fa dell'umorismo ebraico il suo vero punto di forza. Protagonisti due fratelli fisicamente e culturalmente lontani nella Germania del XXI secolo: da una parte Samuel, ebreo ortodosso di casa a Francoforte, dall'altra Zucker, comunista e giocatore squattrinato a Berlino. Alla morte della loro madre, i due sono costretti a riconciliarsi per poter riscuotere l'eredità, ma la convivenza forzata tra le due rispettive famiglie, tra decine di tradizioni ebraiche da rispettare, non sarà affatto facile. Il regista tedesco, in visita a Roma, ci parla della sua scommessa vinta con Zucker e ci racconta come è stato accolto il film dalle comunità ebraiche.

Signor Levy, il suo film parla di ebrei e tedeschi in una maniera assolutamente originale rispetto a quanto visto finora sul grande schermo. Qual è il suo rapporto con la religione ebraica e cosa pensa dei tedeschi di oggi?

Sono stato educato secondo la tradizione ebraica, la mia famiglia è molto osservante, ma io non sono un ebreo ortodosso. Due generazioni fa, i miei nonni, nati e cresciuti in Polonia, si sono trasferiti a Berlino, per poi spostarsi a Basilea dopo la nascita di mia madre. Il mio è stato un percorso inverso: quando nel 1980 ho lasciato Basilea per Berlino, per seguire un gruppo teatrale, è stata una sorta di continuità con la storia della mia famiglia, anche se l'ho capito solo qualche anno dopo. Ho ricevuto un'educazione fortemente anti-tedesca perché mia madre era piena di odio. In casa non si parlava mai di certe cose, come per esempio dell'Olocausto, ma l'odio nei confronti dei tedeschi era qualcosa che si percepiva benissimo. Mi sono trasferito a Berlino quando ancora rappresentava un'isola di galeotti, un'Alcatraz di grandi dimensioni. Nessuno voleva trasferirsi nella Germania Est, a parte i militari e quelle poche persone interessate alla sottocultura dell'Est. Ho assistito a tutti i cambiamenti della città durante gli anni e, anche se ora viviamo in una città riunificata, ancora si sente la divisione e si percepiscono le differenze tra chi è cresciuto nell'area orientale e chi dall'altra parte.

Nel film, infatti, si avverte molto questa divisione culturale.

Sono andato in giro per tutta la Germania per promuovere il film e ho notato che nelle città che appartenevano all'ex DDR si sottolineava soprattutto l'aspetto relativo allo scambio tra Est ed Ovest, mentre nelle città dell'Ovest diveniva centrale il tema dell'ebreo e della condizione ebraica. E' strano come in Israele o a New York, dove ho portato il mio film, nessuno abbia avuto il minimo interesse per l'aspetto, fondamentale a mio avviso, della divisione culturale interna alla Germania.

Il segreto del successo del film è senza dubbio quell'umorismo ebraico che non risparmia niente a nessuno. Quanto deriva questo ridere di se stessi dalla sua esperienza di vita?

L'umorismo ebraico nella mia famiglia era onnipresente e molto fastidioso perché mio padre non faceva altro che scherzare su di sé, su di me e su tutto quello che non funzionava nella famiglia, faceva continuamente battute sul fatto che eravamo cocciuti o perdenti e tutto questo metteva in luce le debolezze della famiglia. L'atmosfera in cui sono cresciuto, però, non solo fa parte della mia cultura, ma è anche stata fondamentale per la mia sopravvivenza. L'umorismo che permette di scherzare su di noi rappresenta una sorta di liberazione. Se compri un libro di barzellette ebree ti rendi conto che quello di cui si prendono gioco in realtà non sono cose divertenti ma dolorose, spiacevoli a livello di cultura personale. Nella commedia puoi spingerti più in là rispetto a un film drammatico, ma perché l'umorismo funzioni non bisogna mai usare il cinismo. Il segreto sta nell'affrontare una storia con amore. Io prendo in giro i miei personaggi, ma lo faccio con calore e con tanto, tanto amore.

Non ha pensato che con un film del genere avrebbe potuto urtare la sensibilità di quella parte delle comunità ebraiche suscettibili verso tutto quello che può essere contro gli ebrei?

Quando ho mostrato la sceneggiatura a mia madre non è rimasta contenta. Mi ha detto subito: "Non farlo, sarà un altro flop!". Ciò che lei temeva era la reazione della comunità ebraica. Alla fine però non c'è stata nessuna reazione esagerata e anzi, Paul Spiegel, il capo della comunità ebraica di Berlino, ha addirittura visto il film tre volte. Penso che il mio sia un film controverso, che rischiava di essere mal interpretato e di toccare la suscettibilità delle persone, ma alla fine la maggior parte di queste ha capito che è un film fatto con amore. Capisco perfettamente quella che è stata la reazione negativa di alcune persone e la rispetto molto. Quando ti appresti a fare un film del genere non puoi pensare di piacere a tutti. Non appartengo alla generazione che ha vissuto l'Olocausto, ma penso che dopo 60/70 anni in cui gli ebrei sono stati rappresentati in maniera drammatica, come vittime, è arrivato il momento di dire basta. In questo Roberto Benigni, con La vita è bella, è stato un pioniere. Secondo me il suo è stato un film molto importante perché il primo a spezzare un tabù: parlare del nazismo e dei campi di concentramento in maniera giocosa. Esiste questo nuovo approccio alla Storia e abbiamo visto che può avere successo.

Come è stato accolto il film in Israele?

C'è stata una parte della comunità ebraica che si è chiesta quanto era giusto prendere in giro gli ebrei. Sebbene abbiano riso vedendo il film, erano timorosi che questo tipo di commedia potesse contribuire ad alimentare sentimenti antisemitici, ma ciò non è accaduto: Zucker è stato un successo non solo commerciale, ma anche culturale. Finalmente gli ebrei non erano più rappresentati unicamente come vittime. I personaggi del mio film sono tutti pieni di contraddizioni, ma proprio per questo attraenti, dotati di quel fascino che ti spinge ad amarli.

Visto l'argomento tabù in Germania, ha avuto problemi a trovare i finanziamenti?

Mentre scrivevo il film non ero conscio del fatto che ci sarebbero stati così tanti problemi per produrlo, ma quando ho cominciato a parlare del progetto alle televisioni pubbliche mi sono trovato a sbattere contro continui rifiuti e non riuscivo a capirne la ragione. Mi dicevano che il film non avrebbe fatto ascolto perché il pubblico non ama vedere storie di minoranze in televisione, il che mi è sembrato scandaloso perché nel 2005 una rete pubblica non può avere ancora di questi preconcetti. Quando il film è stato finalmente prodotto i dubbi si sono dissolti perché sotto la superficie del film la gente ha scoperto qualcosa di cui non aveva la percezione, un po' com'è successo per Goodbye, Lenin!, il film di Wolfgang Becker. Questo ti insegna che quello che all'inizio ti può sembrare difficile con un po' di fortuna può essere vincente e solo così riesci a dare alla gente quello di cui ha bisogno.