Recensione Prometheus (2012)

Nonostante le numerose perplessità sulla sceneggiatura, il tanto atteso ritorno alla sci-fi di Ridley Scott rimane un'opera ricca di suggestioni visive e contenutistiche, purtroppo non sfruttate appieno.

Io sono l'alieno dio tuo

Difficile accostarsi a un'opera come Prometheus con la mente sgombra da pregiudizi. Vuoi perché il film segna l'atteso ritorno alla fantascienza del regista Ridley Scott, che a oltre trent'anni di distanza si confronta di nuovo con la mitologia del capolavoro Alien; un titolo precursore (anche se a sua volta ispirato a un precedente illustre, Terrore nello spazio, diretto dal maestro Mario Bava nel lontano 1965) per il modo in cui ibridava i generi horror e sci-fi, portando per la prima volta sugli schermi hollywoodiani la figura di un'eroina dotata di un ambiguo fascino androgino, l'immortale tenente Ellen Ripley incarnata da una Sigourney Weaver entrata nella leggenda. Vuoi perché Prometheus giunge nel nostro paese con più di tre mesi di ritardo rispetto all'uscita internazionale del 6 giugno scorso e, dunque, (oltre al fatto che praticamente si conosce già tutto del film e che molti lo hanno già visto "per vie traverse") è davvero impossibile ignorare le numerose perplessità che hanno accompagnato la sua ricezione da parte della critica d'oltreoceano. Perplessità che derivano anche dall'inevitabile confronto con il capostipite del 1979, dal momento che questo nuovo tassello del franchise di Alien è intenzionato a ridefinire l'immaginario della saga collocandosi un po' a metà tra il reboot e il prequel. D'altronde è lo stesso film che incoraggia a un'analisi di questo tipo, ricco com'è di riferimenti al suo predecessore (fin dalla grafica del titolo), da cui attinge con insistenza non soltanto per quanto riguarda l'inconfondibile iconografia (affidata ancora una volta agli incubi visionari dell'artista surreale H.R. Giger, decisamente l'aspetto migliore di questa pellicola), ma grosso modo anche per quel che concerne il presupposto narrativo di partenza.


Anche in questo caso, infatti, il plot ha al centro l'equipaggio di un'astronave (battezzata Prometheus, come il titano della mitologia greca che forgiò gli esseri umani), partita in missione per esplorare un ignoto pianeta distante svariati anni luce dalla Terra. A differenza del Nostromo del primo Alien, che incappava nei temibili xenomorfi durante una rotta commerciale, questa volta l'intento della spedizione è, almeno sulla carta, scientifico. A guidare l'indagine è infatti la coppia di studiosi composta da Elizabeth Shaw (l'algida Noomi Rapace, decisamente lontana dal carisma della Weaver) e Charlie Holloway (Logan Marshall-Green) che, attraverso l'analisi di alcune pitture rupestri rinvenute in Scozia, riesce a identificare il pianeta da cui proveniva una misteriosa civiltà extraterrestre che avrebbe creato la razza umana. A finanziare il viaggio è però una multinazionale, la Weyland Corporation, guidata da Meredith Vickers (la poco sfruttata Charlize Theron), incaricata di attuare le tesi visionarie del fondatore Peter Weyland (un irriconoscibile Guy Pearce). Il gruppo di astronauti è inoltre affiancato dall'androide David - interpretato dal talentuoso Michael Fassbender, che qui si confronta con un personaggio ambiguo e difficilmente decifrabile - il quale, progettato dal vecchio Weyland, persegue una sua indagine parallela. Una volta approdati sull'inesplorato e ostile pianeta, Elizabeth e Charlie trovano dei reperti che confermano inequivocabilmente la loro tesi, ma al tempo stesso scoprono che i loro "creatori" avevano delle intenzioni ben diverse rispetto a quelle immaginate.

Se da una parte il costante riferimento ad Alien è la principale ragion d'essere di Prometheus, dall'altra per valutare questa nuova opera con il giusto distacco andrebbero tenute in considerazione le notevoli differenze di contesto e di produzione che separano i due titoli. Il film del 1979, con quella sua estetica minimalista, sporca, umorale, gustosamente splatter, era figlio di un'epoca cinematografica ben diversa dalla nostra. Quello del 2012 è invece condizionato dalle tendenze che dominano l'attuale scenario di Hollywood. Da una parte la vocazione a una spettacolarizzazione estrema e invasiva - che raggiunge il suo culmine nell'impiego della stereoscopia -, anche a discapito della coerenza narrativa e dell'approfondimento psicologico dei personaggi. Dall'altra il dominio della serialità, che ha finito per influenzare anche la scrittura per il cinema. Non per niente uno degli autori della sceneggiatura di Prometheus è Damon Lindelof, uno dei principali artefici di Lost, che qui sembra riversare sia la medesima visione misticheggiante e spiritualista (con un sottotesto cristiano che in questo caso risulta alquanto indigesto), sia la passione per gli interrogativi irrisolti. Un approccio, per quanto apprezzabile in ambito televisivo, che al cinema non funziona (nonostante il film sia concepito come primo capitolo di una potenziale nuova saga), finendo solo per generare frustranti dubbi nello spettatore e per rendere poco credibili le motivazioni e le svolte comportamentali dei personaggi.
L'architrave di Prometheus non è dunque lo script, ma la potente e immaginifica costruzioni visiva, a partire dal meraviglioso incipit, suggestivo ed evocativo. Come in Avatar (opera con cui possiede più di alcuni aspetti in comune), anche in questo caso la terza dimensione assume una funzione immersiva e avvolgente, in grado di suggestionare la percezione dello spettatore, proiettandolo per l'appunto in spazi "alieni".
Con questa ultima fatica, però, Ridley Scott non riesce comunque a rifondare il genere fantascientifico, come aveva fatto negli anni Ottanta con Alien e Blade Runner (oppure come aveva fatto con il peplum nel nuovo Millennio grazie al il Gladiatore), perché incapace di innovare in modo significativo l'immaginario di provenienza. Prometheus rimane, comunque, un'opera ricca di suggestioni, sia visive, sia contenutistiche (in particolar modo filosofiche), affascinante forse proprio per la sua incompiutezza.