Il principe del deserto, il Medio Oriente di Jean-Jacques Annaud

Presentato questa mattina a Roma il nuovo film del cineasta francese in uscita il 23 dicembre, una storia epica ambientata nell'Arabia degli anni '20; nel cast Antonio Banderas, Freida Pinto e Tahar Rahim, quest'ultimo al fianco del regista; 'Il passato ci parla di oggi', ha spiegato l'autore.

Una storia dai contorni epici per il ritorno alla regia di un autore conosciuto e apprezzato dal pubblico per la magniloquenza delle sue immagini. Con queste credenziali Il principe del deserto, nuova fatica cinematografica di Jean-Jacques Annaud, è pronto a sbarcare in Italia il prossimo 23 dicembre in 300 copie grazie alla distribuzione di Eagle Pictures; oltre alla curiosità per l'exploit del cineasta francese, tornato dietro alla macchina da presa a quattro anni dal misconosciuto Sa majesté Minor, c'è il fascino di un racconto ambientato nell'Arabia degli anni '20 (tratto dal libro Il paese dalle ombre corte di Hans Ruesch), e il carisma di un cast che vede tra gli altri Antonio Banderas, Freida Pinto e Tahar Rahim, balzato agli onori della gloria grazie al celebrato Il profeta di Jacques Audiard. Rahim veste i panni di Auda, ultimogenito di Amar, un sultano sconfitto in battaglia dall'emiro Nesib e proprio per questo obbligato a cedere al vincitore i propri figli maschi come garanzia. Questa è solo una delle condizioni imposte da Nesib al termine dell'aspro confronto.

L'altra è che nessuno dei due contendenti potrà avanzare diritti sulla cosiddetta "Striscia gialla", confine naturale fra i regni in lotta. Al contrario dell'ardimentoso fratello Saleeh, ucciso nel tentativo di fuga per riunirsi ad Amar, Auda ama gli studi e non ne vuol sapere di combattere; quando alcuni emissari americani invogliano Nesib ad investire nel petrolio, presente in grandi quantità proprio nella Striscia gialla, l'emiro decide di rompere la tregua con Amar e per rendere lo strappo meno netto combina il matrimonio tra Auda e la figlia Leyla. Nonostante il vero e profondo amore che lo lega alla ragazza, Auda non esita alcun minuto a scendere in campo al fianco del vero padre, in una lotta all'ultimo sangue che lo vede trasformarsi da topo di biblioteca in leader carismatico e illuminato della sua e di altre tribù del deserto. Prodotto da Tarak Ben Ammar e co-prodotto dal Doha Film Institute del Qatar, il film è costato 55 milioni di dollari. Presenti questa mattina alla conferenza stampa romana, Jean-Jacques Annaud e Tahar Rahim hanno parlato della loro esperienza nel deserto tunisino.

Signor Annaud, la sua filmografia testimonia un grande amore per il passato, per le grandi ricostruzioni storiche; tendenza che viene confermata anche da questa sua ultima opera. Perché è così affascinato dal passato? Jean-Jacques Annaud: Potrei risponderle che il passato è eterno. Vede, il cinema deve farmi sognare. Amo viaggiare in luoghi dove non posso recarmi comprando un biglietto aereo e amo le favole che hanno una distanza rispetto al tempo in cui viviamo.

Cosa ti ha conquistato della storia Tahar? Tahar Rahim: Ho subito amato il modo di rappresentare in maniera positiva il Medio Oriente e poi sono rimasto subito affascinato dal personaggio di Auda, un ruolo che mi permetteva di mettermi alla prova su diversi livelli, dandomi la possibilità di utilizzare diverse chiavi per interpretarlo. Sono stato davvero lusingato di essere stato scelto da Jean-Jacques e sono felice di aver accettato questa sfida.

Noi ti abbiamo conosciuto e apprezzato in Il profeta. Com'è stato metterti alla prova su un ruolo così diverso da quello che ti ha consacrato al grande pubblico?
E' stato bello proprio perché Auda è un personaggio positivo, completamente all'opposto di Malik. Auda è un intellettuale, ma passata quella prima fase si scopre stratega, leader carismatico e soldato. E poi è stato fondamentale confrontarmi con Jean-Jacques quando ero assillato dai dubbi.

Quindi c'è stata collaborazione fra di voi? Jean-Jacques Annaud: Sì ed è stata una collaborazione del tutto piacevole. Anzi posso aggiungere che il personaggio di Auda è stato migliorato dalla sensibilità di Tahar. Lavoro molto sulla sceneggiatura, la visualizzo con gli storyboard, ma mi piace soprattutto quando i protagonisti intervengono con la loro sensibilità.
Tahar Rahim: In quel momento qualcosa vince sull'aspetto teorico e senti davvero la libertà di intervenire senza snaturare personaggi e storia. Ho sempre pensato che il pericolo numero uno quando si gira una pellicola è limitarsi a filmare una sceneggiatura.

Tahar, cosa senti di avere in comune con Auda?
Sicuramente la tolleranza.

E com'è stato lavorare in condizioni immagino disagevoli. E' stato difficile cavalcare un cammello?
Enormemente! Mi sono allenato per un mese e quando credevo di aver capito tutto è stato il momento in cui avevo scoperto di non sapere nulla. Ho avuto problemi anche con il cavallo e a mie spese ho compreso che non è affatto uno scooter ma una creatura vivente. Un giorno sono stato sbalzato dalla sella perché il cavallo è stato spaventato da un'esplosione. Zoppicavo vistosamente e allora abbiamo deciso di portare questa cosa anche nel film.
Jean-Jacques Annaud: Quella è stata la peggior giornata lavorativa della mia vita. Per qualche minuto ho avuto paura di aver ammazzato l'attore principale. Ho visto il cavallo arrivare al galoppo e poi ho sentito le urla di dolore. Quando mi sono avvicinato ho visto che a cadere non era stato uno stuntman ma Tahar e che si era fatto molto male. Fortunatamente non si è trattato di nulla di grave, ma ce ne siamo accorti solo quando è andato all'ospedale.

Guardando il suo film non si può non pensare al Lawrence D'Arabia di David Lean. E' effettivamente stato importante come ispirazione per la pellicola? Jean-Jacques Annaud: All'epoca mi piacque davvero molto, ma sinceramente le dico che negli ultimi venti anni ho evitato appositamente di guardarlo perché sapevo che prima o poi avrei girato un film in quella parte del mondo e non volevo lasciarmi influenzare. Mi sono recato anche in quei luoghi prima di girare e ho deciso di cassare la Giordania proprio per questa motivazione. Quindi se devo pensare ad autori che mi hanno davvero formato, penso piuttosto ai russi, Vladimir Pudovkin e Sergej M. Ejzenštejn, ad Akira Kurosawa. Poi sono arrivati Sergio Leone e i grandi registi americani, ma molto dopo. Per tornare alla domanda iniziale, il film di Lean era davvero magnifico, tanto più che dopo nulla è stato fatto in quella regione. E allora ho avuto voglia di conoscerla un po' di più.

Prima Tahar ha elogiato il fatto che nella sceneggiatura si rendesse in maniera positiva il mondo arabo. Ha avuto paura di perdere di vista l'equilibrio del racconto nel tentativo di essere troppo prudente nella rappresentazione della cultura islamica?
No, anzi! Dovevo e volevo offrire un visione onesta e documentata di quel mondo, per questo in tutte le fasi del film mi sono fatto seguire da studiosi del Corano e da esperti della società civile araba. Un metodo di lavoro che avevo giù utilizzato in Sette anni in Tibet proprio per il desiderio di bilanciare il punto di vista dei tibetani e quello dei cinesi. Poi mi è servita molto anche l'esperienza personale accumulata in questi anni nel corso dei viaggi che ho fatto in quei paesi. Fortunatamente non mi sono mai confrontato con l'integralismo.

Forse l'elemento di discontinuità rispetto a Lawrence d'Arabia è che nel suo film tutto viene raccontato attraverso il punto di vista dei non occidentali...
Certo. Sono anni che ricevo sempre le stesse sceneggiature che hanno come protagonisti giornalisti o infermiere americani che scoprono un paese diverso da loro e francamente sono sono un po' stanco. D'accordo, noi potremmo anche aver esaurito le nostre storie da raccontare, ma gli altri no, quindi perché ostinarsi a voler ignorare il punto di vista degli altri? Ecco, in questo film non ci sono interferenze del mondo occidentale.

Che idea si è fatto dei cambiamenti politici che hanno interessato paesi come la Libia?
Per quello che mi riguarda la caduta di un regime non basta per risolvere anni e anni di divisioni e l'unificazione delle tribù in Libia rimane un problema ancora oggi che Gheddafi non c'è più. Per questo ritengo che il nostro film sia atemporale. In fondo ci ha fatto capire che quella favola è valida ancora oggi.

Qual è l'elemento che la affascina maggiormente in una sceneggiatura?
Mi piace scegliere storie in cui i personaggi si trasformano. E' stato così con Adso in Il nome della rosa o come la giovane protagonista di L'amante. Poi naturalmente decido sull'istinto e quando una storia mi piace la sposo. Non amo limitarmi ad un genere e proprio per questo sorprendo il pubblico con film che sembrano distanti fra loro, ma in realtà hanno tutti in comune qualcosa.

Com'è stato accolto il film in Medioriente?
Sta avendo un grande successo in tutto il mondo arabo. Credo il pubblico sia felice di non essere stato rappresentato nella solita maniera.