Recensione Hugo Cabret (2011)

Hugo Cabret è principalmente un lirico omaggio tributato da Scorsese alla Settima Arte e ad uno dei suoi pionieri; ma è anche una favola moderna, romanzo di formazione su un ragazzino che cerca il suo posto nel mondo, in una società vista come un enorme ingranaggio in cui ogni pezzo deve trovare la sua collocazione e la sua funzione.

Il fantastico viaggio di Hugo

Parigi, 1931. La stazione è un crocevia di uomini e vite che si sfiorano distrattamente, in una metropoli che ormai, assorbita l'ondata di invenzioni della fine del secolo precedente, vive un'esistenza scandita dagli onnipresenti orologi, che ne compartimentano rigorosamente ogni aspetto. Una città nella quale non si è ancora spenta l'eco delle perdite della Grande Guerra, ma che già sente nell'aria il vento di una nuova, imminente tragedia. Nella stazione parigina, però, c'è anche chi ci vive stabilmente: come Hugo Cabret, orfano e ladro per necessità, silenzioso guardiano e manutentore degli orologi, custode di un segreto lasciatogli da suo padre di cui ancora non comprende a pieno la portata. Quando il ragazzino viene scoperto a rubare da Georges, l'anziano giocattolaio che ha il suo negozio all'interno della stazione, si rende presto conto di essere misteriosamente legato a quell'uomo burbero; e che, probabilmente, il legame sta proprio nel lavoro lasciato incompiuto dal genitore, uno strano automa che lui e Hugo stavano riparando, testimone di un tempo diverso e dimenticato. Georges non vuole ricordare, e anzi sequestra il taccuino di appunti che scopre in possesso di Hugo, deciso a seppellire per sempre un passato il cui ricordo gli procura solo dolore; ma Hugo vuole al contrario ricostruire la sua storia, trovare il suo scopo e il suo posto nel mondo, proprio attraverso quel silenzioso testimone meccanico, che forse può finalmente riuscire a far parlare. Per far questo, potrà contare sull'aiuto della coetanea Isabelle, figlia adottiva di Georges, elettrizzata all'idea di vivere un'avventura dagli esiti imprevedibili.


Con Hugo Cabret, a quasi settant'anni, Martin Scorsese si cimenta per la prima volta in più di una sfida. Si tratta innanzitutto dell'esordio del regista italoamericano nel campo del cinema per ragazzi, genere teoricamente lontano dall'universo di riferimento del regista di Mean Streets e Taxi Driver, lontano dalle sue figure di gangster e dai suoi lividi affreschi metropolitani, ma anche dalle eleganti rivisitazioni dell'action movie e del thriller offerte nei recenti The Departed - Il bene e il male e Shutter Island. Si tratta, secondariamente, della prima volta in cui Scorsese si cimenta col 3D: tecnologia da sempre molto amata dal regista (che ha dichiarato che il primo film che vide fu proprio una pellicola tridimensionale: si trattava de La maschera di cera di André de Toth, datato 1953) e che in questo periodo sta vivendo una faticosa e in parte contraddittoria (ri)affermazione. Ma si tratta anche, in fondo, della prima volta in cui Scorsese parla direttamente, e in modo esplicito, del cinema e della sua storia, ma soprattutto del suo (e nostro) rapporto con esso: il regista si mette senza pudore "ad altezza di bambino" e narra della meraviglia, unica e irripetibile, provata da un ragazzino di fronte a quel fascio di luce proiettato su uno schermo gigante, dell'inesplicabile senso di magia che quelle immagini trasmettono la prima volta che le si guarda, della ricerca caparbia del modo di catturare, sia pure per un solo istante, un po' di quella originaria meraviglia. In questo senso, l'uso del 3D per una pellicola come Hugo Cabret è non solo opportuno: è probabilmente necessario, e con questo film siamo forse di fronte a uno dei pochissimi casi (il pluricitato Avatar ne è l'esempio più scontato) in cui si può dire che, senza l'ausilio della stereoscopia, non saremmo davvero di fronte allo stesso film.

Il 3D di questo film, al pari di quello che ci ha mostrato James Cameron nella succitata pellicola, è bello, potente, espressivo. E' una vera gioia per gli occhi vedere la profondità e l'incredibile senso di realismo che emanano dalle scenografie di Dante Ferretti, la verticalità e il senso di vertigine della torre dell'orologio in cui vive Hugo, la resa minuziosa delle distanze e il grande lavoro del regista sulla costruzione dell'immagine e sulla profondità di campo: interni ed esterni, la stazione e la Parigi degli anni '30 accarezzata dalla neve, gli anfratti del nascondiglio del protagonista e il fiabesco esterno della residenza del vecchio Georges Méliès, tutto urla meraviglia e parla delle potenzialità di una tecnologia tanto versatile quanto, finora, poco compresa e mal utilizzata. Ma la tridimensionalità di Hugo Cabret è qualcosa di più, qualcosa che nelle mani di Scorsese diventa discorso metacinematografico, riflessione sulla Settima Arte, sulla sua storia e sul modo di fruirla: è commosso e sincero l'omaggio del regista all'arte di Méliès (interpretato nel film da un grande Ben Kingsley) non a caso illusionista prima che cineasta, pioniere degli effetti speciali e di un cinema che (al di là delle infinite discussioni storiografiche sulla paternità del cinema "narrativo") per la prima volta basava sulla meraviglia, sul coinvolgimento emotivo e sulla rappresentazione stessa dei sogni, la sua intima essenza. E' la magia la chiave (non solo simbolica) di accesso alla storia, quella magia ricreata artigianalmente, con infinita pazienza, dalle mani di Méliès coi suoi trucchi e i suoi macchinari, quella che lo stesso Hugo vuole caparbiamente far rivivere nell'automa lasciatogli da suo padre, quella che, alla fine dell'Ottocento, ammaliava gli spettatori e li rendeva testimoni di uno spettacolo che era la versione moderna della lanterna magica. Un sortilegio di cui il grande artista francese capì per primo le reali potenzialità (quando i suoi stessi inventori, i fratelli Lumière, l'avevano già bollato come "moda passeggera") e la cui potenza affabulatrice rivive ora grazie a una stereoscopia che, se usata nel modo giusto, ne restituisce in pieno il limpido potere mesmerico.
Hugo Cabret, ispirato a un romanzo per ragazzi dello scrittore Brian Selznick è dunque, principalmente, un lirico omaggio tributato da Scorsese alla Settima Arte e ad uno dei suoi pionieri; ma è anche una favola moderna, romanzo di formazione su un ragazzino che cerca il suo posto nel mondo, in una società da lui vista come un enorme ingranaggio in cui ogni pezzo deve trovare la sua collocazione e la sua funzione. Lo sguardo di Hugo, interpretato al meglio dal bravo Asa Butterfield, è quello di un personaggio dickensiano che non smette mai di osservare con fiducia, e inesausta curiosità, un mondo che a molti adulti (tra i quali lo stesso, invecchiato e disilluso Méliès) appare invece disordinato e incomprensibile; che divora i suoi libri di avventura con la stessa fame di emozioni e meraviglia con cui si pone davanti allo schermo, che cerca un cuore, e infine lo trova, in una creatura meccanica che porta in sé il ricordo e il perenne legame con un genitore che non ha mai smesso di amare. A fargli da spalla, e da supporto in una ricerca non priva di difficoltà e momenti oscuri (la sequenza dell'incubo è tra le più efficaci e significative del film) una Chloe Moretz altrettanto intensa, il cui personaggio, in questo viaggio che è insieme crescita e scoperta delle proprie radici, avrà modo di conoscere meglio le persone con cui vive, riuscendo infine a legarvisi definitivamente. Un cast messo insieme con grande intelligenza è completato, ma sarebbe meglio dire arricchito, dalle presenze di un sempre carismatico Christopher Lee nel ruolo del saggio libraio, di un divertente Sacha Baron Cohen che dà il volto all'ispettore ferroviario perennemente sulle tracce di Hugo, e di un intenso Jude Law, fantasmatica guida e costante, tranquillo punto di riferimento per le azioni del protagonista. Non semplici comprimari, ma piuttosto compagni di un viaggio in cui, grazie al potere della stereoscopia, veniamo imbarcati quasi fisicamente, e in cui la memoria personale di chi lo ha voluto si mescola, senza soluzione di continuità, a quella cinefila, di noi tutti. L'approdo, per già noto che fosse a molti, non può che toccarci ed emozionarci. Profondamente.

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5.0/5