Il business di un mondo in crisi

Ricco di brio, a dispetto dei suoi protagonisti, La bottega dei suicidi è carico di invenzioni visive che accompagnano la genialità del soggetto; ma queste trovate non sono sostenute da una trama di livello, lasciando l'idea di partenza incompiuta.

Ammettiamo che abbiate deciso di farla finita, che questa vita non ha più niente da offrirvi o che siate voi a sentire di non avere altro da dare al mondo; diciamo che avete trovato la forza d'animo per la risoluzione fatale, che abbiate trovato il coraggio di fare quell'ultimo passo; ma come? Che sapore dare al vostro ultimo atto, quello che lascerà la firma di quello che siete stato? Il sigillo per la vostra esistenza?
Una scelta più che difficile, quasi impossibile! Meno male che c'è chi può guidarvi in questo ultimo cruciale momento, qualcuno esperto che può consigliarvi il modo più in linea con la vostra personalità, oltre che vendervi il necessario per metterlo in pratica. Questo qualcuno è la famiglia Tuvache: il cupo padre Mishima, la tristemente vivace moglie Lucrecia, i due sofferti figlioletti. Una famiglia adorabilmente oscura, come lo possono essere gli la famiglia Addams o alcuni personaggi del primo Tim Burton. La famiglia che gestisce un business di tutto rispetto: La bottega dei suicidi del titolo (in originale Le magasin des suicides).


Negozietto ricco di ogni accessorio per attuare il suicidio, dai cappi per l'impiccagione (di fibre naturali o sintetici, più economici, ma inquinanti) ai veleni (così adatti alla suicida donna), al peso con catena incorporata per lanciarsi sul fondo marino o la lametta arruginita (per morire di tetano, nel caso non funzionasse il classico taglio delle vene), La bottega dei suicidi è il luogo ideale per chi è stanco di tutto ed è sulla cresta dell'onda grazie al periodo di crisi che ha dato la spinta agli affari.
Tutto insomma va per il meglio per i Tuvache, ma capita la cosa peggiore che possa capitare ad una triste famigliola di questo tipo: Lucrecia partorisce il terzo figlio ed è... un bimbo felice! Allegro, sorridente, ottimista, il neonato della famiglia non sembra perdere queste fastidiose caratteristiche nemmeno crescendo, creando disagio e sconforto nei genitori ed i fratelli. Inutili i tentativi di renderlo come loro, mentre lui, a sua volta, si sforza di trasformare gli altri in persone felici. Quale parte avrà la meglio?

E' Patrice Leconte, alla sua prima prova con un film d'animazione, a rendere per il grande schermo il romanzo di Jean Teulé, e lo fa con uno stile visivo stilizzato, ma vivace ed accattivante. Ricco di brio, a dispetto dei suoi protagonisti, The Suicide Shop è carico di invenzioni visive che accompagnano la genialità del soggetto, sfruttando, per quanto possibile in un film in animazione tradizionale, anche il 3D in cui è realizzato. Purtroppo, però, queste trovate non sono sostenute da una trama di livello, lasciando l'idea di partenza incompiuta: il plot si riduce al conflitto tra tristezza ed allegria all'interno della famiglia ed a pretesti per dare il via alle numerose sequenze musicali.
Il film di Leconte è infatti un musical, che trova nelle sue scene musicali i momenti di maggior creatività visiva, che rendono vivaci e divertenti le canzoni composte da Etienne Perruchon, che con tono macabro-sognante finiscono di ricordare alcuni passi di quelle di Nightmare Before Christmas e La sposa cadavere.

L'opera di Tim Burton è infatti il riferimento principale per il film di Leconte, è palese, ma non stiamo parlando di una copia, quanto di doverose citazioni per chi queste atmosfere le cavalca da tempo. Con un comparto tecnico di così discreto livello, è un peccato non aver curato maggiormente la struttura narrativa, che avrebbe potuto rendere completo il film e renderlo un piccolo classico per il pubblico più giovane.