Recensione El Sicario Room 164 (2010)

Giafranco Rosi realizza un vero e proprio 'unicum', un documentario che si regge interamente sulla presenza fantasmatica di un autentico sicario in incognito, capace di evocare l'intero mondo dei cartelli messicani della droga con la sola forza della propria voce e del proprio corpo.

Giù la maschera

Del sicario non si sa nulla. L'unico elemento che lo identifica è un numero, il 164: quello di una camera in un non meglio identificato albergo situato da qualche parte al confine tra Messico e Stati Uniti. Anche il sicario sembra un individuo al confine tra due mondi, come in bilico tra la vita e la morte. Completamente vestito di nero, il volto coperto da una maschera impenetrabile. Un fantasma, un essere dall'identità indefinita. Eppure il sicario è ugualmente capace di esprimersi di fronte alla telecamera usando gli unici mezzi che ha a disposizione: la voce, i movimenti del corpo, e un quadernetto nel quale scarabocchia alcuni schizzi e segna delle annotazioni. Questo basta a far scaturire un intero mondo, che prende letteralmente vita grazie alla vividezza e al trasporto emotivo del suo racconto.
Non potrebbe esserci scelta di regia più radicale: El sicario ROOM 164 si esaurisce integralmente in una serie di piani-sequenza ambientati in nella camera d'albergo, in cui il protagonista, con l'unico ausilio di un blocco d'appunti, racconta la sua vita. Dal primo contatto con il cartello della droga durante l'università, al successivo arruolamento presso la scuola di polizia, passando alle prime operazioni di rapimento e sequestro, senza però trascurare la propria vicenda personale e familiare. Le tecniche di tortura e di assassinio sono descritte con estremo dettaglio, come pure le inestricabili connessioni che legano la criminalità organizzata con le istituzioni politiche e con le forze dell'ordine.

Il racconto perderebbe di intensità se fosse intervallato da materiale di repertorio o da inserti di differente provenienza. Invece la forza del documentario di Gianfranco Rosi - realizzato grazie alla collaborazione di Charles Bowden, che ha per primo preso i contatti con questa misteriosa figura, scrivendo un saggio per Harper's Magazine - sta tutta nel suo dipendere interamente e ciecamente dal sicario stesso, unica vera matrice della narrazione. Il quale si rivela un autentico performer, capace addirittura di rievocare intere sequenze di sequestro e di tortura ricreando da solo ogni aspetto della scena. Inutile dire che El sicario ROOM 164 è un unicum che si regge interamente sul suo fantasmatico protagonista, il quale si serve della videocamera come strumento di confessione e perfino di autoanalisi. La conclusione del racconto, nel quale il sicario rievoca il momento in cui ha deciso di cambiare vita abbracciando la fede, ha infatti il sapore di una rivelazione liberatoria, uno sfogo da cui scaturisce autentica commozione.

Gianfranco Rosi mostra ancora una volta un estremo rigore nell'approcciarsi alla realtà documentata, catturando direttamente le confessioni del protagonista senza alcuna interferenza o mediazione. L'autore tiene costantemente il suo sguardo puntato sul proprio oggetto d'analisi, riuscendo tuttavia a evitare un'eccessiva invasività che comprometterebbe l'autenticità delle dichiarazioni. Il risultato finale è soprattutto una testimonianza preziosa sul piano umano, prima che ancora uno studio sociale e cronachistico.