Fedele alla linea: presentato il docufilm su Giovanni Lindo Ferretti

Nell'insolita cornice dell'Auditorium del Sacro Cuore, a Roma, il regista Germano Maccioni ha presentato il suo documentario dedicato al cantore del punk emiliano: con lui, lo stesso Ferretti e i produttori del film, distribuito dalla Cineteca di Bologna.

C'è poco da dire: Giovanni Lindo Ferretti resta un personaggio di grande spessore, intellettualmente stimolante, con una sua coerenza pur nei cambiamenti e nelle evoluzioni del suo percorso artistico e umano. Prima leader dei CCCP - Fedeli alla linea, e alfiere del punk italiano, poi co-fondatore dei CSI - Consorzio Suonatori Indipendenti, infine animatore del (poco fortunato) progetto PGR - Per Grazia Ricevuta; ma, soprattutto, artista contestatissimo per le sue prese di posizione più recenti (sostegno al centrodestra prima, al movimento antiabortista di Giuliano Ferrara e alla Lega Nord poi) e per l'aver abbracciato, con una scelta tuttavia mai ostentata, la fede cattolica. Il cantautore e poeta, ora, si è ritirato a vivere a Cerreto Alpi, suo paese natale sull'Appennino Reggiano, dove cura i suoi cavalli: proprio ad essi è dedicato il suo nuovo, ambizioso progetto di "teatro equestre" intitolato Saga. Il Canto dei Canti.

Nessuno, tuttavia, aveva mai provato a raccontare (tanto a fondo) il personaggio-Ferretti in un film: la falla è stata ora riempita da Germano Maccioni, che col suo Fedele alla Linea - Giovanni Lindo Ferretti offre uno sguardo, insieme intimo e dal valore collettivo, sulla vita e sull'arte del cantautore. Il documentario, già presentato all'ultimo Bergamo Film Meeting, approda ora in un circuito selezionato di sale, grazie alla distribuzione della Cineteca di Bologna. La presentazione alla stampa, nell'insolita cornice dell'Auditorium del Sacro Cuore, a Roma, ha visto la presenza del regista e dei produttori Ivan Olgiati e Simone Bachini, oltre ovviamente allo stesso Ferretti.

"Questa storia mi è sembrata radicalmente forte", ha detto il regista, "quasi posta nella 'dopo-storia'. Giovanni era disposto a parlare di cose di cui normalmente non ha voglia di parlare: da lì è partito tutto. Considero questo lavoro una saga, ma anche una domanda di significato; mi sono fermato lì, all'Appennino/Prealpi, perché ci ho visto grandi potenzialità. C'è una narrazione, lì, che è altra cosa dalla narrativa: è come se fosse sopravvissuto un lungo medioevo. E' stato quando ho visto la strada sgretolata che porta al paese che è nato tutto."
"Sono un po' intimorito", ha esordito Ferretti. "E' la prima volta che vedo il film. Sono anche un po' commosso. Ho permesso a loro di farmi domande che non avrei mai permesso di fare a nessuno: solo nella scena in cui parlavo di mia madre mi sono fermato, rendendomi conto che già avevo detto troppo. Comunque ormai ho quasi 60 anni, un'età bella, in cui uno si sente più leggero e può anche fottersene un po'. Trovo che il documentario sia bello, soprattutto perché ci sono queste meravigliose immagini della mia montagna: sembra provenire da un altro mondo, ma in realtà è un pezzo molto grande della realtà."
"E' un documentario particolare, ma credo fosse degno di avere una sua visibilità", ha detto Simone Bachini, "così come degna è la storia che racconta. Scusate se lo dico, ma si vedono tante boiate al cinema, perché non far vedere un film del genere? Tra gli spettatori, inoltre, c'è voglia di vedere un cinema diverso".
Qualcuno fa notare che, nella scelta dei brani che compongono la colonna sonora, la produzione dei PGR (ultimo gruppo di Ferretti) è molto marginale. "E' colpa mia", risponde Maccioni. "Il film, col tempo, è diventato di Giovanni, ma, finché era mio, ho deciso io i pezzi: ho scelto sia quelli che trovavo adatti alla narrazione, sia, semplicemente, quelli che mi piacevano. Io non volevo che fosse né un film biografico, né un film musicale, ma qualcosa che andasse più a fondo: è un film su un poeta, una cosa che non credo mi capiterà più di fare."
Ferretti, a una domanda che gli chiede il motivo per cui ha deciso di raccontarsi così liberamente, risponde così: "Io, per certi versi, di questo progetto mi sento committente: infatti ho chiesto loro di investire su quella che era una mia visione. Volevo raccontare il mio progetto di teatro, un teatro montano, barbarico, che è la messa in scena di un canto epico: racconta quello che è stato, che è, e che sarà. E' un'idea sicuramente destinata a un fallimento assoluto, ma valeva la pena raccontarla. Li ho anche un po' rimproverati, durante le riprese, perché raccontavano poco dei cavalli e molto di me. Il titolo del film, infatti, doveva essere Saga, ma poi loro sono riusciti a convincermi che il titolo giusto era un altro. Comunque, il mio interesse principale era raccontare il teatro equestre: il mio raccontarmi è stato funzionale a questo."
"Non è proprio una biografia", ha concordato il regista, "perché, attraverso il racconto di lui, abbiamo parlato di temi universali, che riguardano tutti".
All'inevitabile domanda sulla sua riscoperta della fede, e sul modo in cui ha vissuto le critiche che questa gli ha portato, Ferretti risponde in modo molto pacato: "Tutto è nato, semplicemente, da un mio libro di riflessioni, che fu pubblicato dalla Mondadori. Io non pensavo che potesse fare tanto scalpore la storia di quello che, alla fine, è stato un ritorno a casa. Le parole si usano spesso a sproposito, ma sì, la mia è stata anche una conversione: non diversa, però, da quella di ogni credente, che nella sua vita si interroga e si converte ogni giorno. Io però, al di là di questo, sono solo tornato a casa: la costruzione della mia vita, fatta negli anni, semplicemente non mi aveva dato soddisfazione. Alla fine, mi sono reso conto che aveva molta più ragione mia nonna, illetterata novantenne, dei tanti maestri e accademici che ho frequentato in seguito. A me, comunque, tutto ciò che è stato detto lascia indifferente: sono consapevole che ho un'immagine pubblica, e ognuno può scrivere su di essa ciò che vuole. Anche quando combattevo la chiesa, comunque, il mio era in realtà un discorso di fede: combattevo qualcosa a cui appartenevo. Ora, qualcuno mi ha chiesto anche di 'testimoniare' la mia conversione, ma io non ho nulla da testimoniare: la mia è una religione di consuetudine, non faccio che dire le preghiere che mi hanno insegnato da bambino. Lo faccio perché mi fa sentire bene."

"Tutti, nella vita, abbiamo una domanda di senso", ha concluso il regista. "Da lì non si scappa. Io, questa domanda, l'ho vista in Giovanni, ed è quello il tema del film. Questa domanda, poi, può assumere linguaggi diversi: che possono essere quello cristiano, musulmano, buddista, e via dicendo".