A.C.A.B, Stefano Sollima racconta l'Italia di oggi

Dopo una carriera televisiva in cui spiccano Crimini, La Squadra e Romanzo Criminale - La serie, il regista Stefano Sollima firma il suo esordio sul grande schermo con il lungometraggio ACAB - All cops are bastards, ispirato al romanzo omonimo de giornalista Carlo Bonini.

Dai gruppi skinhead degli anni Sessanta all'Italia del duemila, l'acronimo A.C.A.B. continua ancora a gridare al mondo che "all cops are bastards".Tornato in voga negli anni Ottanta attraverso un brano del gruppo inglese The 4-Skins, per la nostra cultura questo slogan rappresenta però il titolo del libro d'inchiesta del giornalista Carlo Bonini che, pubblicato da Enaudi nel 2009, ha ispirato il lungometraggio d'esordio di Stefano Sollima. Dopo una lunga carriera televisiva in cui spiccano La Squadra, Crimini e il più noto Romanzo criminale - La serie, il regista non poteva lasciarsi fuggire l'occasione di un altro racconto destinato a fotografare gli aspetti più oscuri della nostra attualità, ponendo, questa volta, sotto la lente d'ingrandimento della critica sociale il comportamento di un gruppo di poliziotti pericolosamente in bilico tra legalità e violenza. Prodotto da Cattleya e distribuito da 01 Distribution in 300 copie dal 27 gennaio, A.C.A.B. s'immerge nella quotidianità di Cobra (Pierfrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini), tre celerini bastardi così abituati a gestire una società esasperata dall'odio e dall'assenza di regole, da rispondere a questa con una forza fin troppo spregiudicata. Così, attraverso la quotidianità di una squadra mobile piuttosto discutibile ravvivata dall'arrivo della recluta Adriano ([PEOPLE]Domenico Diele), Stefano Sollima riscrive le pagine di una cronaca che, dagli scontri del G8 di Genova alla morte di Gabriele Sandri, racconta la quotidianità di chi dovrebbe farsi garante d'ordine e giustizia.

Signor Sollima, questo film ha una vocazione molto classica e fisica che riconduce a delle esperienze gladiatorie alla 300. Si riconosce in un modello del genere? Stefano Sollima: La mia idea era di realizzare un film poliziesco nella forma ma dall'anima intelligente. Volevo che A.C.A.B contenesse dei temi sociali riconoscibili per lo spettatore, come un'attualità piuttosto difficile da raccontare ma che sono riuscito a veicolare attraverso gli elementi narrativi del genere. In questo modo, ho potuto costruire un mondo posto sia al centro della narrazione che sullo sfondo.

C'è un simbolico filo d'unione che unisce Romanzo Criminale - La serie ad ACAB - All cops are bastard? Stefano Sollima: Si tratta di due esperienze veramente diverse. Nel primo caso ho gestito un racconto più smaccatamente di genere. Inoltre, dovendo muovermi all'interno di una cronaca "vecchia" di vent'anni, mi sono sentito più libero di giocare con la materia. Discorso del tutto diverso è stato fatto per ACAB - All cops are bastards. Qui mi sono trovato a tu per tu con un racconto attuale della realtà di oggi ed ho utilizzato un punto di vista più formale. L'unico elemento comune potrebbe essere l'uso delle musiche come strumento narrativo supplementare.

Il film concentra la sua attenzione sulla vita privata e professionale di quattro membri del reparto mobile divisi tra convinzioni politiche e personali votate all'eccesso. In che modo vi siete prepararti per vestire i panni di queste figure così controverse? Pierfrancesco Favino: Per quanto riguarda la preparazione atletica, con gli altri ragazzi ci siamo dedicati a sport di squadra come il rugby che ci ha aiutato molto a comprendere i meccanismi alla base di un team. L'aspetto umano, invece, si è formato sulle sensazioni che, di volta in volta, ho cominciato a provare dentro di me in modo del tutto naturale, soprattutto durante le simulazioni. Fortunatamente noi facciamo un mestiere in cui lavoriamo con il corpo e sentiamo i messaggi che questo ci invia ancora prima che si accenda la nostra razionalità. Indubbiamente io bandisco e condanno i casi limite come il G8, ma essere messo a confronto con una massa che t'insulta e assale fa salire in te un'aggressività quasi naturale. E' anche vero che io non sono addestrato a controllare i miei impulsi. a differenza della polizia.
Filippo Nigro: Non nego che prima d'iniziare le riprese avevo alcuni pregiudizi, ma come attore non puoi permetterti un atteggiamento del genere. Venendo a contatto con loro, poi, capisci di trovarti di fronte a delle persone abituate a usare la violenza entro limiti molto poco chiari. Nello specifico, i nostri personaggi sono tutti reduci dalle violenze del G8 che, pur non venendo mai raccontato direttamente, fa sentire tutto il suo peso sulle spalle dei tre. Ho cambiato la mia opinione su di loro dopo questo film? Difficile a dirsi. Sicuramente è mutata la mia percezione. Non credo assolutamente che siano dei santi ma ora ho una visione più specifica del problema.
Andrea Sartoretti: Nel film interpreto Carletto, un ex poliziotto sospeso dal servizio. Il mio personaggio è praticamente indifendibile, detesta la sua vita e individua la ragione dei propri fallimenti solo ed esclusivamente al di fuori. Ed è da qui che nasce l'odio. Pur non partecipando mai a delle cariche, ho voluto comunque prendere parte a delle simulazioni con gli altri perché dovevo sapere qual era il suo background emotivo. In quei momenti ho percepito tutta la tensione che queste persone vivono quotidianamente, chiamati a sostenere una continua guerra civile.
Domenico Diele: Sono stato costretto a comprendere più a fondo le ragioni di queste persone. La mia opinione è rimasta più o meno la stessa ma ho molti più strumenti per valutare le singole questioni.

Il film ha rispettato la natura e gli intenti del romanzo omonimo o ha cercato di prendere una strada indipendente? Carlo Bonini: Tutto è rimasto incredibilmente fedele allo spirito del libro. Quello che non desideravo ottenere dal mio lavoro era una lettura in bianco o nero. Il capovolgimento del punto di vista serve a rendere proprio più complessa la rappresentazione di questa realtà.

L'intero cast di Diaz, che sarà presentato al Festival di Berlino, ha ammesso di aver utilizzato il suo romanzo come un vero e proprio testo sacro per comprendere atteggiamenti, idee e attitudini di chi vive costantemente in prima linea. Qual è stato, invece, il suo rapporto con il cast di ACAB? E' intervenuto sul set o ha scelto di rimanere nell'ombra? Carlo Bonini: Ho deciso di rimanere al di fuori e di non essere coinvolto in nessun modo, fatta eccezione per la fase preparatoria della sceneggiatura. Penso che il cast dovesse attraversare questa esperienza esattamente com'era successo a me quando ho realizzato il libro. Dovevano affrontare questo viaggio emotivo indipendentemente e la mia presenza sarebbe stata solo un elemento di disturbo.

Crede che la trasposizione cinematografica riuscirà a vivere lo stesso successo del romanzo? Carlo Bonini: Me lo auguro, anche se, non avendo alcuna esperienza nel campo, non ho idea di come un film possa diventare un fenomeno. Credo che sarebbe un successo necessario per questo paese, affetto dal problema di raccontarsi la verità. Siamo abituati a un costante processo di rimozione rispetto a quello che accade. Siamo la società del complotto e della sfortuna, ma alla fine si dovrà fare i conti con la durezza dei fatti. In un paese in cui si legge poco, il film potrebbe avere un impatto importante.

Un certo tipo di narrazione non potrebbe contenere un rischio morale? Carlo Bonini: Io credo che ci si debba liberare da questo ricatto altrimenti si rischia di non raccontare mai nulla o solo ciò che è funzionale alle tue convinzioni. All'inizio delle mie ricerche per il romanzo ho dovuto agire su me stesso in modo veramente profondo. C'erano cose di cui non sopportavo l'ascolto, figurarsi poi scriverle e riportarle con fedeltà. Certo c'è un rischio morale, qualcuno dirà che il film, come il libro, slaccia la museruola al mostro che è in noi, ma è proprio in questo elemento che si nasconde la difficoltà del lavoro.
Pierfrancesco Favino: Non credo che Il problema sia la morale ma il moralismo. Per me la morale s'identifica nel raccontare la realtà per quello che è e, visto da questa prospettiva, il film soddisfa pienamente le aspettative. E' moralismo, invece, relegare la violenza e la sua espressione solo al mondo dei celerini per metterci l'anima in pace e girare le spalle a un problema comune a tutti. Certo, se non si comprende la natura di questa distinzione, è sicuramente difficile leggere i vari sottotesti di questa storia.

ACAB è un film sociale con dei chiari riferimenti alla condizione politica dell'ultimo decennio. Quanto ha contribuito la gestione spregiudicata del potere istituzionale a ravvivare costantemente la miccia della violenza? Andrea Sartoretti: Più che politico credo si tratti di un film sociale. Se guardiamo indietro alla nostra storia, possiamo rintracciare periodi ben più atroci. Sollima ha cercato di raccontare la situazione attuale e quanto sia facile farsi contagiare dall'odio, restituirlo e sentirsi uniti nel condividerlo.
Francesco Favino: La cattiva politica la fa ognuno di noi giorno dopo giorno quando pensiamo di non dover condividere regole civili, attribuendo solo agli altri il dovere di rispettarle. Se poi quest'atteggiamento è sostenuto anche dai rappresentanti politici che eleggiamo liberamente, vuol dire che gli italiani hanno un'educazione civica molto lacunosa.
Stefano Sollima: Non credo che il cinema debba fare la morale, ma se mi soffermo a guardare i dibattiti politici vedo solo una semplificazione dell'odio espresso nella non riconoscibilità dell'altro. Non penso che l'odio sviluppatosi in questi anni sia diverso rispetto al passato. Credo, piuttosto, che abbia delle ragioni ideologiche meno precise, dei contorni più sfumati rispetto alla realtà pasoliniana.