Recensione La mia classe (2013)

Il nuovo lavoro di Daniele Gaglianone, ancora più ambizioso dei precedenti, si muove tra il dramma sociale, la docufiction e le riflessioni meta-cinematografiche, con una complessa genesi che ne ha determinato in gran parte le peculiarità.

Tornare a scuola per tornare a vivere

Roma, in un quartiere periferico. Una classe ascolta con attenzione il proprio insegnante che fa lezione. Sono studenti un po' particolari: adulti, immigrati da vari paesi, tutti con la necessità di imparare l'italiano per prolungare la loro permanenza nel nostro paese. Storie diverse, dall'Europa dell'Est al Medioriente, dall'Africa fino al Sudamerica; dai conflitti più recenti, ancora sotto i riflettori dei media, a quelli ormai dimenticati. Tutti appesi a quel sottile filo che separa la condizione di immigrato regolare da quella di clandestino, confine che segna anche la differenza tra l'approvazione sociale e il rifiuto, il riconoscimento di (pochi) diritti e lo stigma di individuo socialmente pericoloso. Ma questi studenti, in realtà, sono attori che interpretano loro stessi: la classe è un set, il professore un volto noto del nostro cinema. Tutti, però, stanno raccontando la loro storia, come in un documentario. Finché, all'improvviso, un evento reale finisce per sconvolgere gli equilibri sul set, mettendo a rischio la prosecuzione stessa delle riprese. Realtà e finzione si sovrappongono sempre più, fino a divenire indistinguibili.


Daniele Gaglianone, documentarista approdato con successo al cinema di fiction, è tra i cineasti più interessanti, e tecnicamente dotati, del nostro cinema. Il suo Ruggine, presentato nelle Giornate degli Autori della scorsa edizione della Mostra di Venezia, non faceva che confermare le sue qualità, pur nelle imperfezioni narrative. Il discorso fatto per il precedente lavoro di Gaglianone vale anche, e a maggior ragione, per questo La mia classe; film ancora più ambizioso dei precedenti, opera che si muove tra il dramma sociale, la docufiction e le riflessioni meta-cinematografiche, di nuovo ospitato al Lido nella prestigiosa sezione dei Venice Days. La genesi di questo lavoro, almeno per come l'ha raccontata il regista, ne ha determinato in gran parte le peculiarità: un dramma sociale sull'immigrazione, raccontato come un documentario (la recitazione degli studenti è quanto di più naturale, e genuinamente anti-cinematografico, si possa immaginare) e impreziosito dalla presenza di un volto noto (Valerio Mastandrea) che improvvisamente si trasforma in qualcos'altro; quando un imprecisato evento occorso sul set (se sia lo stesso raccontato nel film, non ci è dato sapere) ne mette improvvisamente a rischio la realizzazione. Così, realtà e finzione deflagrano, il set cinematografico (e lo stesso regista) si spostano davanti alla macchina da presa, lo sguardo dello spettatore inizia a muoversi su due livelli anziché su uno.

Le riflessioni sullo sguardo e sui meccanismi della finzione cinematografica, da Jean-Luc Godard in poi, non sono certo materia nuova per lo spettatore smaliziato; ma il film di Gaglianone si rivela interessante per come mescola i diversi registri di cui si serve, e per la sua natura di progetto in itinere, che ha preso forma e consistenza (in modo evidente) nel corso della sua realizzazione. Per almeno un'ora, il regista riesce ad amalgamare bene la materia di cui dispone, nonostante qualche eccesso di didascalismo (i dettagli sulle lacrime degli studenti) e affidandosi a un'ottima, e spontanea, alchimia tra il protagonista e i bravissimi attori non professionisti. Mastandrea conduce il gioco con esperienza, pennellando le sue lezioni di un credibile umorismo, fermandosi sempre un passo prima dell'istrionismo fine a sé stesso, e riuscendo a far emergere, con naturalezza, le storie dei co-protagonisti. I loro volti e i loro racconti, così autentici, annullano con facilità le mediazioni del mezzo cinematografico, risaltando in tutta la durezza ed emotività che esprimono. Tuttavia, il carattere così peculiare del soggetto ha finito per portare anche qualche squilibrio in fase narrativa, evidente soprattutto nell'ultima parte. L'impressione è che, giunto al culmine di un climax, il regista non sappia come concludere la vicenda, non dando alcun seguito ad elementi che sembravano importanti (la malattia del protagonista) e inserendone altri posticci e poco convincenti (il monologo nei minuti finali). Lo stesso finale, pur sottolineando un carattere "circolare" della narrazione, lascia un evidente senso di incompiutezza.

Va tuttavia riconosciuto, pur nei limiti e nelle imperfezioni del progetto, il coraggio di Gaglianone nel proporre un soggetto così battuto dal nostro cinema (i drammi sociali, e specie quelli sull'immigrazione, si sono moltiplicati negli ultimi anni) inserendovi un punto di vista nuovo, almeno per i nostri standard: quello di un cinema che si interroga sui suoi stessi meccanismi, sul confine tra realtà e finzione, tra racconto e ricostruzione, tra vita colta nel suo dispiegarsi e la sua (ri)organizzazione cinematografica. Se è vero che l'amalgama non sempre funziona al meglio, e il materiale a tratti sfugge di mano al regista, gli intenti, e parte della resa, vanno comunque premiati.

Movieplayer.it

3.0/5