Recensione Il mistero del falco (1941)

Con questo film la materia di cui sono fatti i sogni assumerà, una volta per sempre, una consistenza amara, spietata e cinica. Come quella rinvenibile in molti frammenti della storia del cinema degli ultimi sessant'anni.

La materia dei sogni

Una città invisibile. Protagonisti ambigui costretti a muoversi in interni angusti. Una trama intricata in cui la ricerca di un qualcosa, come nelle migliori pellicole di John Huston, prima o poi verrà vanificata. Una regia dal taglio complesso ed inusuale (spazi serrati e una matrice quasi espressionistica nella proiezione delle ombre), costruita su una lentezza talmente implosiva da far dissimulare la violenza degli atteggiamenti e gli stessi colpi di scena. Un'atmosfera plumbea che ammanta gli ambienti con una cappa d'inesorabilità, per via anche di un finale da pessimismo cosmico. Dialoghi allusivi e fatali ("una ragionevole dose di pericolo fa bene alla salute", dichiara ad un certo punto il detective privato Sam Spade alla sua cliente) che da soli articolano il flusso della narrazione. Una sfuggente e modernissima partitura composta da Adolph Deutsch che integra al meglio il clima rarefatto della pellicola.

Chi si accinge a vedere per la prima volta Il mistero del falco, non può, insomma, ignorarne la portata epocale. Amara conseguenza della Grande Depressione, l'opera prima dell'allora trentaquattrenne John Huston verrà distribuita contemporaneamente all'ingresso degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale. E così Il mistero del falco avvia l'irripetibile stagione hollywoodiana del noir, il genere del quale la pellicola di Huston esplicita da subito i tipici connotati, non più eludibili dai successivi registi. Basato su un racconto di Dashiell Hammett del 1929 e nomination per il Miglior Film, Il mistero del falco rappresenta il modello incontrastato da seguire per trasporre cinematograficamente qualsiasi hard boiled novel che si rispetti. Perché Huston elabora la durezza propria del racconto noir tramutandola in immagini altrettanto forti in grado di sovraccaricarne gli elementi nevralgici. Ciò è reso possibile grazie alla presenza di protagonisti che caratterizzano alla perfezione i loro alter ego: la maschera inimitabile di Humphrey Bogart, l'esuberanza di Sydney Greenstreet, la fragilità disonesta di Mary Astor (non propriamente una dark lady, vista la rinomata misoginia di Huston: Brigid sarà addirittura schiaffeggiata da Sam Spade!) e le doti istrioniche di Peter Lorre.

Quattro grandi attori che, manipolati da una claustrofobica sopraffazione del male, ruotano intorno al sogno impossibile della preziosa statuina dorata. Essa non è un hitchcockiano MacGuffin. Il falcone maltese è un elemento attivo del film, è un sogno che forse non è mai stato tale. E' un oggetto che sancisce (anticipando l'effimero risvolto de Il tesoro della Sierra Madre) la volatilità della ricchezza materiale. Così Huston appronta quelle direttrici noir che perfezionerà ulteriormente (ma forse senza bissare lo stesso decisivo impatto del Il mistero del falco) in un altro grande classico come Giungla d'asfalto.