Recensione Tropical malady (2004)

Il film ha indubbiamentre una sua densità contenutistica, nonché un certo fascino visivo ipnotico. Allo stesso tempo, però, soffre di una sorta di profondità che si intuisce ma non si coglie, generando una sensazione di scoramento ineluttabile

La giungla della passione

Passato per svariati festival, alcuni dei quali lo hanno acclamato senza indugi, arriva nelle nostre sale, per rimanerci probabilmente molto poco tempo, visto il numero di uscite e il tipo di prodotto di difficile fruizione, il tailandese Tropical Malady di Apichantpong Weerasethakul, regista che ha vinto nel 2002 a Cannes il premio speciale per la sezione Un Certain Regard con il suo esordio Blissfully Yours. Il film prende a pretesto una bizzarra storia omosessuale ambientata in un villaggio tailandese per illustrare mediante la messa in pellicola di una leggenda locale, la fascinazione che il regista nutre verso alcuni temi: l'oscurità, l'amore e il regno selvaggio della giungla e in primis.

Il film ha indubbiamentre una sua densità contenutistica, nonché un certo fascino visivo ipnotico. Allo stesso tempo, però, soffre di una sorta di profondità che si intuisce ma non si coglie, generando una sensazione di scoramento ineluttabile. Quella che pare voler essere una riflessione ontologica sulla natura umana e sul suo rapporto con la natura, che in molte occasioni ricorda (almeno al sottoscritto) le teorie di Gregory Bateson sull'ecologia nella mente, tende a diventare un interminabile viaggio compiaciuto e contemplativo privo di coordinate e di punti di riferimento. Il problema principale sembra risiedere nell'eccessivo uso di un simbolismo di difficile decodifica (specie nella seconda parte della pellicola). Questo cripticismo ha come corollario formale un'estetica eccessivamente rarefatta, dove ogni accadimento ha il peso del destino umano sulle spalle e uno staticismo delle atmosfere e della messa in scena cosi esasperato da divenire spesso un problema per il mantenimento della soglia di attenzione necessaria dello spettatore.

Se prolifera un certo luogo comune sul presunto calligrafismo un po' pedante di molto cinema orientale, probabilmente non sarà questo Tropical Malady, decisamente poco rappresentativo di quello che è oggi il cinema tailandese, a sfatare questa diceria, per quanto semplicistica sia.