Recensione Playing the Victim (2006)

Questo Playing the Victim rappresenta un curioso esempio di cinema russo che vuole staccarsi dai tipici stereotipi di quella cinematografia: un'operazione viziata, però, da un'impostazione visiva spesso forzatamente 'sperimentale'.

L'Amleto nella Russia di oggi

Valya è un ventottenne russo con un lavoro un po' particolare: interpreta il ruolo della vittima nelle ricostruzioni degli omicidi fatte dalla polizia. Il giovane, che dopo la morte di suo padre vive con la madre e il suo nuovo compagno, ha così come principale occupazione quella di passare da una scena del delitto all'altra, mentre la sua fidanzata continua a chiedergli un cambio di rotta e delle sicurezze che lui non è in grado di darle. Quando, in sogno, la figura del padre di Valya appare al giovane, la sua vita sembra crollargli addosso: il "fantasma" del genitore rivela infatti di essere stato assassinato proprio dalla moglie e dal suo amante...

Presentato quasi "in sordina" nella penultima giornata della Festa del Cinema di Roma, e vincitore a sorpresa del premio per il miglior film assegnato dalla giuria popolare, questo Playing the Victim rappresenta un curioso esempio di cinema russo che vuole staccarsi dagli stereotipi che lo spettatore medio ha di quella cinematografia. Un'operazione simile a quella compiuta, nel 2003, dall'ungherese Nimròd Antal con il suo Kontroll: il modello è certo cinema indipendente statunitense, da cui viene mutuata l'estetica tra sperimentalismi e tentazioni semi-documentaristiche, con lo scopo di rappresentare un universo contemporaneo caotico quanto privo di punti di riferimento, più vicino di quanto si voglia pensare a quello delle grandi metropoli occidentali. Il modello letterario dichiarato è nientemeno che l'Amleto shakespeariano, riproposto in una chiave contemporanea e dai forti connotati grotteschi.

Il film ha diversi momenti riusciti, specie grazie a dialoghi azzeccati e divertenti (basti citare il feroce monologo del poliziotto all'interno del ristorante giapponese), ma soffre di una regia che, sotto la patina forzatamente moderna che cerca di darsi, è in fondo abbastanza anonima. Il regista Kirill Serebrennikov viene dal teatro e, per quanto si sforzi di nascondere questa sua provenienza con un linguaggio ricco di contaminazioni e sperimentalismi visivi, lascia trasparire chiaramente nel film la sua impostazione di base: non ci sarebbe nulla di male in questo, se non fosse che qui si cerca di mascherare una regia sostanzialmente poco incisiva con una contaminazione di linguaggi il più delle volte forzata. L'inserimento di sequenze animate può stupire, ma resta un elemento marginale e in fin dei conti superfluo nell'economia della storia, così come l'insistenza sulle sequenze da documentario riprese dalla telecamera della polizia.

Quello che resta, quindi, è un film con ottime potenzialità che sono andate in parte sciupate, proprio per un'apparente smania di confronto con gli omologhi americani e dell'Europa occidentale che probabilmente non ha giovato al risultato finale. E' innegabile comunque la bontà dell'idea di base, e una sceneggiatura a tratti molto riuscita: elementi che, se non bastano da soli a fare un buon film, rendono comunque piacevole la visione, nonostante l'estetica spesso poco funzionale alla storia. E questo inaspettato premio, forse, potrà ora dare al film una visibilità che probabilmente non era neanche negli auspici dei suoi creatori.

Movieplayer.it

3.0/5