Kung Fu Panda: perché rivedere il film d’animazione della DreamWorks

Kung Fu Panda arriva su Infinity, e noi ne approfittiamo per passare in rassegna i suoi non pochi pregi.

L'adorabile panda Po in un'immagine del nuovo film d'animazione della Dreamworks, Kung Fu Panda
L'adorabile panda Po in un'immagine del nuovo film d'animazione della Dreamworks, Kung Fu Panda

Quasi 2 miliardi di dollari al box office mondiale, due nomination agli Oscar e cinque spin-off, tra speciali televisivi, serie e cortometraggi. Questo è il franchise di Kung Fu Panda, che dal 2008 è una delle punte di diamante della DreamWorks Animation a livello di apprezzamento della critica, del pubblico e dell'industria cinematografica. Basti pensare che il capostipite, forte dello star power di Jack Black e Angelina Jolie (due delle voci principali in inglese), fu invitato - fuori concorso - al Festival di Cannes nel 2008, una piattaforma di lancio che ha spesso portato fortuna alle produzioni animate della DreamWorks (l'esempio classico è il franchise di Shrek, i cui primi due episodi debuttarono sulla Croisette). A dodici anni di distanza, con il primo capitolo che arriva su Infinity, abbiamo voluto tornare indietro e ricordare perché si tratta di un titolo da (ri)vedere.

Risate sincere

Una scena del film Kung Fu Panda
Una scena del film Kung Fu Panda

C'è stato un periodo in cui, grazie alla lezione di Shrek, la produzione della DreamWorks Animation rispettava certi canoni a livello di contenuto e tono: comicità demenziale e parodistica, allusioni alla cultura popolare, personaggi fin troppo ricalcati sulle personalità dei doppiatori (non sempre con risultati eccelsi, come nel caso di Shark Tale). Il tutto, ovviamente, con grafica tridimensionale, poiché dopo il flop di Sinbad: la leggenda dei sette mari nel 2003 lo studio ha deciso di accantonare del tutto l'animazione tradizionale. Kung Fu Panda, uscito tra un Madagascar e l'altro, con l'orco verde teoricamente in pensione e Dragon Trainer ancora in gestazione, rappresenta un primo passo verso qualcosa di leggermente diverso: l'estetica è sempre quella, riconoscibile, della casa di produzione, ma dopo un primo tentativo di puntare sulla parodia dei film di arti marziali si è deciso di realizzare una commedia action dal tono sincero, dove le risate non demoliscono la serietà della premessa e dei momenti più drammatici (rispetto agli altri esempi citati in precedenza, il villain di turno è davvero temibile, e lo stesso vale per i sequel). E le allusioni al genere, o a elementi adiacenti, sono ridotte al minimo, con quella più evidente relegata ai titoli di coda: una cover del brano Kung Fu Fighting a cura di Jack Black.

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Un protagonista goffo ma capace

Una foto di gruppo per i protagonisti del cartoon prodotto dalla Dreamworks, Kung Fu Panda
Una foto di gruppo per i protagonisti del cartoon prodotto dalla Dreamworks, Kung Fu Panda

Altra caratteristica notevole è proprio il protagonista, quel Po che viene improbabilmente scelto come nuovo campione e difensore della regione, e al netto di qualche goffaggine innata dimostra di essere all'altezza della responsabilità tributatagli. Il suo è il classico viaggio dell'eroe, condito da irresistibili battibecchi con i compagni d'avventura e con il mentore (doppiato in originale da Dustin Hoffman con la giusta dose di ironia mista a saggezza), il risultato di un ripensamento importante quanto quello legato al film stesso. Nelle intenzioni degli autori, infatti, Po doveva essere decisamente meno simpatico, un po' come Woody nella primissima versione di Toy Story (fu necessaria una riscrittura quasi da zero per far sì che la Disney non bocciasse definitivamente il progetto). A rimescolare le carte ci pensò Jack Black, con un provino che mise in evidenza quanto fosse necessario rendere il panda del titolo un personaggio a tutto tondo, che piace al pubblico perché riconosce i propri difetti ma è anche un concentrato di allegria e grinta che garantisce il divertimento.

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Questioni di tecnica

Kung Fu Panda, una sequenza del film
Kung Fu Panda, una sequenza del film

Dal 2004 la DreamWorks Animation punta esclusivamente sulla tecnica digitale, per lo meno per quanto riguarda le uscite in sala (gli spin-off televisivi, paradossalmente, spesso optano per un'estetica bidimensionale che è l'esatto opposto del prototipo), a causa di un presunto disinteresse generale del pubblico nei confronti di uno stile più classico (ma c'è chi sostiene che nessuno dei flop realizzati in modo tradizionale avrebbe avuto successo se fatto col computer, per questioni legate alla qualità del prodotto stesso sul piano concettuale). All'interno dei singoli lungometraggi, però, i registi si prendono a volte delle libertà creative che deviano leggermente dallo stile che è il marchio di fabbrica dello studio, e questo film ne è un esempio notevole con il suggestivo e accattivante prologo, un omaggio alla tradizione cinese del teatro d'ombre che mette anche in mostra il talento dell'animatrice Jennifer Yuh Nelson, che dopo aver diretto quella sequenza spettacolare ha ricevuto l'incarico di firmare per intero i due sequel. E sebbene la politica generale della DreamWorks Animation rimanga la stessa, è ancora possibile vedere piccoli gioielli di creatività nei casi giusti, come quando si decise di puntare su un improbabile, adorabile eroe che continua a divertire dopo più di dieci anni dal suo debutto.