Recensione Marley (2012)

Il lavoro di Mac Donald ci dimostra che c'è ancora tanto da imparare da un artista come Bob Marley e lo fa senza colpi di scena privi di spessore, ma affidando la sua indagine a rari filmati di repertorio, relativi ai primi anni della carriera e alle foto dei suoi ultimi giorni, testimonianze preziose di una vita mai banale.

Is This Love

Nelle oltre due ore e venti minuti di Marley, il documentario di Kevin MacDonald dedicato al più grande musicista reggae della storia, un volto resta impresso più di tutti gli altri. E' quello dell'anziana infermiera tedesca che si prese di cura di lui negli ultimi giorni della sua vita quando, ormai devastato da una malattia che aveva invaso tutto il suo corpo, il cantante venne ricoverato in una clinica specializzata in Germania. Senza i dreadlock, fiaccato dalla chemioterapia, ma ancora coraggioso, lo ricorda quella donna che lo chiamava affettuosamente Bobby, ed era affascinata dalla grande pazienza dimostrata da Marley in quei mesi durissimi e ricordando la sua figura si è lasciata scappare qualche lacrima. E' tutta qui l'intensa opera diretta dal regista britannico, premio Oscar per Un giorno a settembre, incentrata su di un uomo e di un artista che sapeva far sciogliere anche una integerrima professionista teutonica, solo con la grande dignità mostrata in un momento così delicato. Ci soffermiamo su questo apparentemente piccolo particolare solo perché sarebbe impossibile elencare tutti i contributi di questo eccellente documentario, bello perché straordinario era l'artista che lo ha ispirato, un rivoluzionario dalla grande spiritualità.


Estremamente rigoroso nello scandire le tappe della sua carriera, Marley vive della simpatia e della verità degli intervistati, su tutti Neville O'Riley Livingston, soprannominato Bunny, l'amico che fa conoscere a Bob le meraviglie delle sette note, spingendolo ad intraprendere la carriera di musicista. Nato dalla scandalosa relazione tra un inglese bianco e una donna giamaicana, Robert Nesta Marley mostra da subito un grande talento per la musica, una compagna di vita che ne ha definito l'identità, trasformandolo da giovane inquieto, affranto per gli attacchi subiti a causa delle sue origini, a simbolo di un intero movimento, artistico, ma non solo. Gli inizi non sono esaltanti. Chiusa la fase 'pop' dei The Teenagers nel 1963, Bob Marley, Bunny, Peter Tosh, Junior Braithwaite, Beverley Kelso e Cherry Smith si trasformano nei The Wailing Rudeboys, diventati i The Wailers nel 1966, un sodalizio destinato a chiudersi nel 1974, quando il gruppo assume il nome di Bob Marley and The Wailers. Risale al '66 invece la conversione al cristianesimo e al Rastafarianesimo, una scelta di vita che ha profonde ripercussioni sulla sua arte visto che da quel momento le canzoni diventano un mezzo per arrivare a dio e per affermare un discorso fortemente politico improntato alla fratellanza e alla difesa dei poveri; aspetto, questo, che trova la sua massima espressione nel concerto per la celebrazione dell'indipendenza dello Zimbabwe e in quello organizzato nella 'sua' Kingston per far cessare le ostilità fra le fazioni politiche che si opponevano violentemente. Nel documentario di MacDonald, presentato nella sezione Berlinale Special del 62.mo Festival di Berlino, vediamo Marley alla conquista di nuovi 'adepti', perfino tra gli americani. Il cantante di Nine Mile solletica le grandi case discografiche come la Island, ha tredici figli da sette relazioni diverse, fa innamorare di sé donne bellissime grazie alla sua timidezza, gioca a calcio, fuma erba. E al culmine della sua carriera si arrende solo ad una malattia mai curata, un melanoma sviluppatosi all'alluce di un piede, e ormai letale.

In una stagione proficua sotto il profilo dei documentari musicali, come conferma la presentazione del lavoro di Martin Scorsese su George Harrison, quello di Davis Guggenheim sul making of di Achtung Baby degli U2, From the Sky Down, e quello di Cameron Crowe sui Pearl Jam, non poteva mancare il ritratto sanguigno e vitale di un musicista francamente non paragonabile ad altri della sua generazione, un essere umano in grado di catalizzare energia e rilanciarla al pubblico con una potenza quintuplicata, basti dire che ha cantato fino a quando le forze lo sostenevano. Con la strettissima collaborazione della famiglia Marley, MacDonald ha intervistato tutti quelli che hanno condiviso la loro vita con Bob Marley, la moglie Rita, la compagna Cindy Breakspeare, due dei suoi figli, Ziggy e Cedella, cercando di comprendere quale fosse quel misterioso elemento che gli ha permesso di parlare al cuore di tanti uomini, in un lasso di tempo relativamente breve. Possono essere tante le risposte a questa istanza, ma noi scegliamo la sua onestà di fondo. Quando Bob Marley dice in un'intervista 'La mia ricchezza è la vita', si è davvero propensi a credergli. A 32 anni dalla sua scomparsa prematura, il lavoro di MacDonald ci dimostra che c'è ancora tanto da imparare da un artista come lui, l'ultimo dei puri in un mondo dominato dall'affarismo e lo fa senza colpi di scena privi di spessore, ma affidando la sua indagine a rari filmati di repertorio, relativi ai primi anni della carriera e alle foto dei suoi ultimi giorni, circondato dagli amici di sempre, testimonianze preziose di una vita mai banale, accompagnate da canzoni che non si dimenticano. Gli stessi brani che nel finale del documentario vengono da cantati da migliaia di persone in tutto il mondo, cioè il grande palcoscenico di Bob Marley.

Movieplayer.it

4.0/5