Recensione Leoni per agnelli (2007)

Redford riscopre un cinema impegnato, dal sentimento genuinamente democratico, evitando quasi sempre di scadere nella retorica.

Il ritorno dell'impegno civile

A sei anni dall'11 settembre, e a quattro dall'inizio del conflitto iracheno, il cinema americano inizia a riflettere sulla politica estera dei suoi attuali governanti. A Venezia abbiamo potuto vedere Redacted e In the Valley of Elah, diretti rispettivamente da un gigante del cinema statunitense degli ultimi trent'anni come Brian De Palma, e da una nuova leva promettente (anche se un po' furba) quale Paul Haggis. Ora, è uno storico esponente del cinema impegnato e democratico come Robert Redford a offrire un ulteriore tassello di questo nuovo "viaggio" di Hollywood dentro la coscienza del proprio paese; a differenza dei suoi colleghi, Redford sposta il centro della sua visuale dall'Iraq all'Afghanistan, inserendo tuttavia il conflitto nell'ottica di una più generale riflessione sul potere persuasivo dei media, sui costi umani di ogni guerra, e sulla necessità di prendere posizione su questioni che toccano, anche se indirettamente, la vita di tutti i cittadini.

E' un film che intreccia tre storie diverse, questo Leoni per agnelli: una giornalista chiamata a intervistare un rampante senatore repubblicano, che sostiene di avere una strategia per vincere definitivamente la guerra contro il terrorismo; uno studente ventenne, disamoratosi dei propri studi e della politica, che si confronta aspramente con un suo insegnante; due giovani militari, un afroamericano e l'altro messicano, in missione in territorio afghano, gravemente feriti e lasciati in balia del nemico. Le tre linee narrative procedono parallelamente, fin quando non ci si rende conto che la "svolta" voluta dallo sgradevole politico (ben interpretato da un Tom Cruise che sfrutta al meglio il suo sorriso da spot elettorale) è in realtà già in atto, e i primi che ne stanno facendo le spese sono proprio i due sfortunati giovani.
Redford sceglie di non soffermarsi sulle sequenze ambientate sul campo di battaglia (la parte che si svolge in Afghanistan è quasi tutta incentrata sui dialoghi tra i due militari, mentre poco o nulla è concesso agli scontri con i nemici), mentre dà un grande risalto alle riflessioni, svolte lontano dal territorio di guerra, sui motivi del conflitto, sui suoi drammatici costi umani, e sulle diverse responsabilità nell'aggravarsi della situazione.

Il punto di vista del regista, che interpreta anche l'intenso ruolo del professore universitario, è noto e ancora una volta esplicito: Redford è un democratico convinto, un americano di idee patriottiche, convinto tuttavia che l'affermazione dei valori statunitensi nel mondo non debba passare necessariamente per la via della guerra e dell'intimidazione. La riflessione portata avanti dalla sceneggiatura, oltre che sulle responsabilità dell'apparato politico statunitense, è incentrata sulle colpe dei media, descritti come vere e proprie banderuole pronte a cambiare linea a seconda di come tira il vento della politica. L'amara ammissione della giornalista (a cui dà il volto Meryl Streep), che riconosce che la sua stessa emittente sosteneva l'amministrazione americana quando ha dato il via a una guerra basata sulle menzogne come quella in Iraq, finisce per far segnare un punto a favore dello squallido politico repubblicano, coerente nella sua grettezza e nel suo disprezzo per le tante vite umane perse.

Tuttavia, il regista sembra voler suggerire che un impegno attivo per il cambiamento è, oggi più che mai, necessario. Non è un caso che il personaggio da lui interpretato contrapponga la scelta di arruolarsi (a suo avviso sbagliata) da parte dei suoi due ex studenti, alla sostanziale apatia mostrata dal giovane con cui si sta confrontando. Nonostante gli errori e gli orrori della politica, il messaggio lanciato dal film, coerentemente con l'impostazione morale del suo autore, è chiaro: il cittadino è il motore propulsore del cambiamento, e la sua partecipazione attiva alla vita politica continua ad esserne lo strumento privilegiato. Il taglio scarno, a tratti decisamente antispettacolare, della regia, contribuisce a rafforzare il carattere impegnato dell'operazione, evitando quasi sempre (con l'esclusione, forse, del finale) di scadere nella retorica.

Movieplayer.it

3.0/5