Il 'Reality' di Matteo Garrone a Cannes

L'altro volto di Napoli e della televisione nella nuova pellicola di Matteo Garrone, in concorso a Cannes, che segna una svolta rispetto al precedente Gomorra.

Unico film italiano in concorso al 65° festival di Cannes, su Reality di Matteo Garrone si concentrano tutte le speranze di gloria nostrane. Il regista, noto all'estero dopo l'exploit con Gomorra, si è concesso una pausa lunga quattro anni per realizzare il suo nuovo lavoro, completamente diversa dal precedente, in cui si concentra su una vicenda privata, ispirata a fatti realmente accaduti, per riflettere sulla 'fame' di successo dell'uomo comune pronto a tutto pur di approdare in televisione e partecipare a un reality show. Garrone arriva a Cannes accompagnato da alcuni dei co-autori con cui aveva già collaborato per Gomorra (Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Maurizio Braucci), dagli attori Nando Paone e Loredana Simioli e da Domenico Procacci.

Matteo, grazie al tuo film abbiamo avuto la possibilità di scoprire un grandissimo attore, Aniello Arena. Come mai oggi non è qui con te?
Matteo Garrone: Aniello Arena è un attore di teatro che lavora in una compagnia di detenuti chiamata La Fortezza, diretta da Armando Punzo. L'avevo conosciuto qualche anno fa e lo volevo già in Gomorra, ma il giudice non gli ha concesso il permesso, così ho dovuto attendere fino a oggi. DI giorno Aniello lavorava sul set e la sera tornava in carcere. Anche se non è potuto venire, è molto felice che il film venga presentato qui a Cannes.

Dopo Gomorra hai lasciato passare quattro anni prima di fare un altro film. Cos'è accaduto nel frattempo?.
Per prima cosa mi sono messo a cercare un soggetto che avesse la stessa forza di Gomorra o addirittura che fosse più sorprendente. Sapevo di andare incontro alla catastrofe perciò, dopo un film così pesante, ho sentito il bisogno di girare una piccola storia che avesse anche un valore metaforico.

Stavolta non hai affrontato il tema della mafia. Questa è una dark comedy.
Vorrei che il pubblico capisca la mia necessità di cambiare genere, di fare qualcosa di più leggero. Mi sono concentrato sulle illusioni e sui sogni di molti italiani che aspirano a diventare famosi. Aniello ha saputo portare leggerezza e ingenuità nel suo personaggio, ma al contempo gli ha donato una gravità che proviene dalla sua esperienza di detenuto. Quando aveva vent'anni è rimasto coinvolto in una guerra tra clan, ma ora è completamente cambiato grazie anche alla recitazione. Aniello è un incrocio tra Pulcinella, Totò e Robert De Niro. Per quanto riguarda gli altri interpreti, provengono tutti dal teatro, dal cabaret o dalla commedia. Con loro c'è stato un rapporto di scambio molto stretto, gli ho permesso di fare proposte e fornirmi suggerimenti.

Non c'è più la mafia, ma c'è un altro tipo di denuncia.
In realtà sia mentre scrivevo che mentre giravo non avevo intenzione di esprimere nessuna critica.

Hai scritto Reality insieme allo stesso gruppo di co-autori di Gomorra. Come mai ti piace lavorare con così tante persone?
Questa storia è ispirata a un fatto realmente accaduto a Napoli. Insieme agli altri autori ho cercato di raccontarlo usando un tono fiabesco. La televisione assume una sorta di ruolo metafisico, un Eldorado, un paradiso che sembra quasi raggiungibile.

Anche Napoli viene mostrata in modo diverso dal solito. In un certo senso sembra perdere i suoi connotati negativi, diventa quasi un luogo fantastico e, nello stesso tempo, si insiste sulla sua oscurità.
E' stato importante raccontare la decadenza di Napoli, soprattutto di quei luoghi che hanno un valore storico, che hanno vissuto un grande passato. Volevamo che questo sembrasse quasi un film della Pixar. Non volevamo mostrare il lato oscuro o grottesco dei personaggi, ma schierarci dalla loro parte. Alla fine credo di aver realizzato una fiaba moderna.

Cosa pensi del fenonemo dei reality in Italia?
Ovviamente è una moda, quindi ci sono programmi che possono andare più di moda di altri. Noi volevamo usare i reality come metafora d'altro, perciò non saprei cosa dire riguardo alla tv nello specifico. A noi interessava raccontare in parallelo il viaggio di un paese e il viaggio di un uomo verso la follia.

E' volontaria la somiglianza con Ginger e Fred di Fellini?
Più che con Ginger e Fred molti mi hanno fatto notare la somiglianza con i primi film di Fellini, come Lo sceicco bianco. Ginger e Fred è legato a un periodo particolare di Fellini, forse l'unica somiglianza riguarda la presenza della tv. Semmai il nostro protagonista è una sorta di Pinocchio e quello è un riferimento sempre presente nella sceneggiatura, anche se poi in alcuni punti ci siamo discos

tati dalla trama originale. Comunque l'omaggio al grande cinema italiano c'è, è inutile negarlo, ma spero di aver comunque mantenuto la mia personalità.

Puoi dirci qualcosa della fotografia di Reality?
Il direttore della fotografia Marco Onorato ha fatto tutti i miei film. Da parte nostra c'era questo desiderio di raccontare la storia come una favola perciò abbiamo cercato di creare una luce astratta. E' lo stesso lavoro che abbiamo fatto in tutti gli altri dipartimenti, costumi, trucco, scenografie, per dare il senso del confine tra realtà e sogno.

Hai parlato spesso di follia. E' questo il segno sotto il quale leggi la nostra realtà in Italia?
Questa è la storia di un personaggio perciò non trovo giusto generalizzare. Non posso affermare che sia una storia rappresentativa degli italiani.

Maurizio Braucci: Il rischio era quello di fare una storia pretenziosa, che volesse fare critica nei confronti della società. E' giusto che il pubblico legga elementi universali, ma noi siamo focalizzati sul personale. Il pudore di Matteo lo ha spinto ad accennare molti temi complessi, ma a trattarli in modo leggero e a lasciare il finale aperto.

Come mai hai scelto ancora una volta Napoli?
Matteo Garrone: Napoli è una città che presenta molti contrasti. Contiene diverse realtà, zone che hanno una valenza storica e a fianco aree degradate. A questi luoghi tipici della città affianchiamo non luoghi come il centro commerciale, l'acquapark, l'outlet, posti che danno un senso di artificio. Anche nella scelta degli attori, delle loro facce, abbiamo usato lo stesso criterio per mettere a contrasto persone diverse.

A fianco della grande illusione del reality sembra di scorgere un'altra illusione, quella della religione.
In realtà nel viaggio del mio protagonista vi sono dei simboli, ma io personalmente non mi sento di dare spiegazioni. Il personaggio di Michele è un credente, ha una forte fede, mentre Luciano crede in altri valori, nel successo e nel potere della televisione.

In Reality, alla speranza del protagonista di fare televisione, manca la controparte. Non vediamo mai come funzionano i meccanismi interni della tv.
Maurizio Braucci: Ma questo è voluto. A noi sembrava più interessante mostrare il lato umano della cosa. Vedere come la vive la persona coinvolta nel processo nel tentativo di partecipare a un reality. Abbiamo scelto una linea più umana, più civile.

Forse l'impressione di mancanza proviene anche dalla soropresa di vedere, dopo Gomorra, un film come questo. Qualcuno magari si aspettava una nuova opera epica, un film in stile scorsesiano.
Domenico Procacci: Come produttore posso affermare che se Reality è capace di spiazzare il pubblico, di dargli qualcosa di diverso da ciò che si aspettava, l'operazione è riuscita. Il film dice delle cose in modo forte, ma per farlo usa un linguaggio metaforico. Questo non ne diminuisce il valore.

Voi attori come avete vissuto i vsotri personaggi?
Nando Paone: Io voglio ringraziare Matteo perché dopo tanti ruoli comici ed estremi ha scelto proprio me. Il mio personaggio richiede un'interpretazione e una volta tanto mi ha permesso di fare una cosa diversa. In Italia gli attori spesso sono vittima di clichès, i volti particolati come il mio vengono trattati come maschere. Stavolta mi è stato permesso di mostrare una gamma interpretativa. Il mio rapporto con Michele è stato unico, Matteo lascia molta libertà di interpretazione, ma in realtà ha molto chiaro ciò che vuole ottenere. Quando gli attori pensano di aver dato il massimo, Matteo interviene decidendo di cambiare tutto. Nonostanto la presenza della macchina da presa, abbiamo lavorato con un sostrato teatrale forte.

Loredana Simioli: Io sono molto più egoista del mio personaggio. Maria, invece, è una donna che si concede completamente al marito e ai figli. Antepone i loro bisogni ai suoi. Grazie a Maria mi sono un po' innamorata anche io, ho imparato a rilassare la mente e a giocare di più col cuore.

Matteo, secondo te che direzione sta prendendo il cinema realista contemporaneo?
Matteo Garrone: Io sono un regista solo in apparenza realista. In realtà parto dal realismo per arrivare ad altro. Non saprei proprio fare un analisi del cinema contemporaneo, non credo di conoscerlo così bene per dire che direzione stia prendendo. Ho difficoltà anche a dire che direzione sto prendendo io.

Avevi pensato a un finale diverso da quello che vediamo nel film?
Il finale è stato molto travagliato. Avevo pensato a molti finali diversi, in uno il protagonista tornava a Napoli, ma alla fine abbiamo scelto il finale più semplice, naturale e diretto. L'idea di questa risata folle è incredibilmente drammatica, ma ci ricollega a quella dimensione metafisica che volevamo ricreare nel film.

Di solito, dopo una prima fase di riprese, ti prendi del tempo per ripensare, iniziare a montare ed eventualmente tornare sul set. Stavolta com'è andata?
Rispetto alle altre volte in questo caso sono rimasto molto più fedele alla sceneggiatura, però siamo comunque tornati a girare per una decima di giorni.