Il fascino discreto della borghesia: i 50 anni del capolavoro di Buñuel

Ne Il fascino discreto della borghesia, premio Oscar come miglior film straniero del 1972, Luis Buñuel ricorre al surrealismo per costruire una commedia anarchica e corrosiva.

Non riesco a capire l'ossessione che alcuni hanno per dare una spiegazione razionale a immagini spesso gratuite. La gente vuole sempre la spiegazione di tutto. È la conseguenza di secoli di educazione borghese. E per tutto quello per cui non trovano spiegazioni ricorrono in ultima istanza a Dio. Però, a cosa gli serve? Dopo dovranno spiegare Dio.

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Il fascino discreto della borghesia: un'immagine del film

Quattro persone si presentano alla villa di Alice Sénéchal (Stéphane Audran) in seguito all'invito a cena di suo marito Henri (Jean-Pierre Cassel); quest'ultimo tuttavia è fuori per lavoro, mentre Alice sostiene che l'invito fosse per la sera successiva e non ha nulla da offrire ai propri amici. È un banale equivoco ad aprire Il fascino discreto della borghesia, la molla che innesca il primo di una lunga serie di imprevisti e di contrattempi: un ristorante desolato in cui si sta tenendo una veglia funebre per il proprietario, morto all'improvviso nel pomeriggio; un raffinato bistrot che, a causa dell'affluenza insolitamente alta, non può più offrire ai propri clienti né tè né caffè; una compagnia militare che bussa con un giorno d'anticipo alla porta dei Sénéchal, mentre i loro invitati si sono appena seduti a tavola.

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Il fascino discreto della borghesia: Bulle Ogier, Stéphane Audran e Delphine Seyrig

Il capolavoro di Luis Buñuel è imperniato appunto su questo meccanismo: una catena di atti mancati, l'attesa incessantemente frustrata per un pasto che sembra destinato a non essere mai consumato. Ancora un presupposto paradossale, simile all'espediente alla radice de L'angelo sterminatore, di dieci anni prima, ma la cui assurdità appare qui meno smaccata ed estrema: non si respira mai un autentico dramma nel microcosmo del film, caratterizzato al contrario dalla compostezza dei personaggi e dal loro formalismo pressoché inscalfibile. Perfino quando Simone Thévenot (Delphine Seyrig) si reca in visita all'amante, l'ambasciatore sudamericano Rafaël Acosta (Fernando Rey), e viene sorpresa qui dal marito François (Paul Frankeur), il sospetto dell'adulterio non trapela in alcun modo dalle interazioni del terzetto, risolte con l'ennesimo appuntamento mondano.

I "pazzi borghesi" di Luis Buñuel e Jean-Claude Carrière

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Il fascino discreto della borghesia: un'immagine di Stéphane Audran

Ambientato fra i salotti e i locali di Parigi, Il fascino discreto della borghesia approda nei cinema francesi il 15 settembre 1972, attirando nelle sale un milione e mezzo di spettatori; un mese più tardi debutta negli Stati Uniti, dove l'accoglienza è entusiastica e la pellicola si aggiudica il premio Oscar come miglior film straniero. Alle origini di quest'opera fortunatissima c'è la quarta collaborazione fra Luis Buñuel e lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, inaugurata nel 1964 con Il diario di una cameriera per proseguire nel 1967 con il celeberrimo Bella di giorno e nel 1969 con La Via Lattea: un sodalizio segnato dal progressivo abbandono della struttura drammaturgica tradizionale per virare invece verso un racconto di tipo composito, costituito da un accumulo di situazioni, frammenti, subplot e "vicoli ciechi", in un'ideale circolarità che ci riporta invariabilmente al punto di partenza insieme al piccolo gruppo di protagonisti.

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Il fascino discreto della borghesia: un'immagine dei protagonisti del film
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Il fascino discreto della borghesia: Maria Gabriella Maione e Fernando Rey

Eleganti, sorridenti, amanti della buona cucina: dal Rafaël Acosta di Fernando Rey, ambasciatore della fantomatica Repubblica di Miranda, che non si scompone del fatto di essere il bersaglio di una cellula di terroristi rossi, ai coniugi Sénéchal, interpretati da Stéphane Audran e Jean-Pierre Cassel, che corrono a 'infrattarsi' nel giardino della loro villa mentre gli amici consumano l'aperitivo in salotto. Tutti rispettosi dell'etichetta e delle regole del galateo, impegnati ad aderire quanto più possibile al modello di vita borghese, ma in fondo vacui, annoiati, privi di passioni e di vere convinzioni; "Io sarei anche socialista, se i socialisti credessero in Dio", è la serafica replica di don Rafaël alla retorica della giovane terrorista che ha tentato di aggredirlo. Ad emergere, in particolare, è il classismo insito in una visione del mondo basata su rapporti di subalternità e su un parassitismo eletto a modus vivendi.

Bella di giorno: lo scandaloso Leone d'Oro di Buñuel e Deneuve

Un capolavoro fra realtà, sogno, non-sense e politica

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Il fascino discreto della borghesia: un'immagine di Julien Bertheau

Eppure, il film di Buñuel è quanto di più lontano da un pamphlet: la sua satira antiborghese non assume mai toni predicatori o moraleggianti, non punta a sostenere alcuna tesi specifica e, soprattutto, non si fa ingabbiare nei rigidi limiti di un apparato allegorico. A rendere Il fascino discreto della borghesia uno dei titoli più vitali, fluidi e divertenti dell'intera produzione buñueliana è proprio lo straordinario senso di libertà che lo attraversa, la gioiosa inventiva di una narrazione aperta a digressioni e piccoli non-sense, fino a sfociare in un gioco di scatole cinesi in cui il piano della realtà si intreccia con quello del sogno. Ed è qui che il regista spagnolo dà pieno sfogo alla matrice onirica e surrealista del suo cinema, tra apparizioni soprannaturali (lo spettro nascosto nell'armadio) e trovate da manuale (la sala da pranzo che si trasforma in un palcoscenico, con i commensali costretti a recitare davanti a un pubblico).

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Il fascino discreto della borghesia: Fernando Rey, Jean-Pierre Cassel e Paul Frankeur
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Il fascino discreto della borghesia: un'immagine del film

È interessante riflettere su come tali aspetti abbiano contribuito alla popolarità de Il fascino discreto della borghesia, che a distanza di mezzo secolo dimostra infatti di aver superato egregiamente la prova del tempo; ma anche il sottotesto politico del film, benché spesso dissimulato o tenuto in secondo piano, conserva una forza e un'efficacia che trascendono il contesto e l'epoca di appartenenza. L'ironia di Buñuel, d'altronde, non è mai davvero 'innocua', e in questo caso non manca di indirizzarsi sui legami fra l'egemonia della classe borghese, con i suoi privilegi ammantati di ipocrisia, e la complicità di istituzioni quali l'esercito e la Chiesa, incarnata dal compiacente Vescovo Dufour (Julien Bertheau): anch'essi, a loro modo, ingranaggi di un sistema di potere con cui Buñuel, esule dalla Spagna a causa del regime franchista, non avrebbe mai smesso di fare i conti, pur con il sorriso (o un ghigno?) sulle labbra.

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