Recensione Il tesoro della Sierra Madre (1948)

Il percorso umano, quasi dantesco, di tre avventurieri cercatori d'oro e, per questo, costretti a lottare, omericamente, con le avversità della natura, con la spietatezza dei banditi e con loro stessi.

I sentieri selvaggi dell'avidità

Per gli appassionati del cinema d'avventura, Il tesoro della Sierra Madre è una di quelle opere imprescindibili che segnano da sole la grandezza di un genere e anche la sua fortuna futura (George Lucas e Steven Spielberg non avrebbero mai creato la saga di Indiana Jones senza questo illustre predecessore). Per John Huston Il tesoro della Sierra Madre è anche l'ennesima occasione per ribadire le direttrici principali della sua opera.

Il regista americano (ma che acquisirà la cittadinanza dell'amata Irlanda nel 1964) scolpisce virilmente i personaggi (niente donne, se non all'orizzonte...), rendendo percepibili per tutta la durata del film la fatica, il sudore, la sofferenza fisica e le condizioni climatiche della Sierra Madre (grazie ad inquadrature molto strette e ad una grande profondità di campo quando Huston lascia respirare maggiormente la macchina da presa). Il risultato complessivo (a cui concorre anche la splendida colonna sonora "esotica" di Max Steiner, sempre in grado di adeguare il tema principale alle situazioni narrate) è ottenuto sfruttando al massimo le locations messicane di Tampico, San Jose de Purua e Durango e ricreando in studio le scene notturne, senza far perdere la magia di posti dove l'ambientazione selvaggia è uno degli indiscutibili elementi di fascino della pellicola. Una pellicola che è da vedersi come un geniale ripensamento del western (e in questa chiave è da notare il rispetto dei canoni classici negli scontri a fuoco con i banditi e nei campi lunghi gestiti come soggettive "proiettate" dall'alto per scrutare, allarmati, panorami sconfinati). Qui la nuova frontiera, però, è già storia. Non ci sono più ferrovie da costruire, musi rossi da eliminare e zone da conquistare. Nel "western" di John Huston l'uomo resta solo al cospetto di madre natura, custode gelosa dei suoi segreti, dei suoi pericoli e dei sogni (dorati) dell'umana specie. E l'uomo resta solo anche dinanzi a se stesso, dinanzi alla sua avidità ed ai suoi sogni impossibili.

Nella recherche hustoniana de Il tesoro della Sierra Madre, è un immenso Humphrey Bogart (Dobbs) ad incarnare la figura solitaria di un americano spiantato (con un solipsismo che ricorda altri protagonisti delle pellicole di Huston, come, ad esempio, il Dix (Sterling Hayden) di Giungla d'asfalto) in una terra spiantata (il Messico) in cerca di un'impossibile svolta per la sua vita. L'incontro con un altro miserabile come lui e con un cercatore d'oro un po' avanti con l'età, cambierà le sue sorti. Ma certamente non in meglio, visto lo psicotico accanimento di Dobbs (che in una delle scene basilari del film si aggira tra gli alberi quasi come un lupo mannaro). Il miraggio della ricchezza sarà dunque spazzato via dalle simboliche folate di vento, insieme al sombrero d'oro del bandito appena giustiziato ed ai sacchetti ormai vuoti.

E i sorrisi isterici di Howard (uno sbarazzino Walter Huston, papà del regista) e di Curtin (Tim Holt) con cui si conclude in sostanza il film, sono lo sberleffo tirato ad un destino crudele e con cui l'uomo riafferma la sua dignità e la sua pace interiore. Beffando anche la parabola (che nel 1948 sembra essere già storia anche lei) del sogno americano: il vecchio west è ormai alle spalle (con buona pace di Mel Brooks che, nella sua parodia western Mezzogiorno e mezzo di fuoco, renderà omaggio al film riproponendone una delle battute più significative)...