Recensione Away from her - Lontano da lei (2006)

Il film di Sarah Polley è un gioiello di sensibilità e sincerità, capace di raccontare una storia a forte rischio di pietismo con una ricchezza, una grazia e un equilibrio davvero sorprendenti.

Diventare estranei

Chi l'ha detto che le opere prime da registi degli attori sono sempre trascurabili? Sarah Polley, volto sublime della miglior produzione di Atom Egoyan, di certo non rientra nel lotto e a neanche trent'anni dirige con grazia e intelligenza l'amore di un'anziana coppia giunta a una complice serenità, improvvisamente spezzata dalla crudeltà dell'Alzheimer. Non proprio il soggetto che si immagina in mano a una giovane debuttante dietro la macchina da presa. A guardarlo poi Away from Her - Lontano da lei appare così discreto e trasparente che si rischia di pensare che sia un film di semplice lettura e realizzazione, quando invece è un gioiello di sensibilità e sincerità, capace di raccontare una storia a forte rischio di pietismo con una ricchezza, una grazia e un equilibrio davvero sorprendenti.

Come tutto il migliore cinema indipendente americano Away from Her si dimostra in grado di gettare uno sguardo intenso e toccante su temi tanto battuti quanto di difficile trattazione come l'amore, la vecchiaia e la malattia, raccontando senza ossessioni disfunzionali o atroci stramberie alla Little Miss Sunshine, il progressivo scollamento della realtà causato dalla più atroce delle malattie. Pena infinita specie per chi come Grant (uno straordinario Gordon Pinsent) è costretto a subire impotente la perdita di una memoria comune di una vita costruita insieme. Costretto soprattutto a perdere, giorno dopo giorno, lo sguardo dell'amata Fiona (Julie Christie, grandissima anche lei), dopo 44 anni vissuti insieme. Perché dopo le crisi, le difficoltà e le cattiverie del passato, in lui c'è ormai spazio solo per la persona che ora non lo vede più e finisce anche tra le braccia di un altro.

La delicatezza della regia della Polley commuove senza mai scadere nella retorica o nel sentimentalismo, proprio perché documenta un'agonia che monta e strugge con una sobrietà invidiabile, senza mai ricattare lo spettatore o prendere facili scorciatoie melodrammatiche. La direzione degli attori poi è encomiabile e dimostra che la Polley ha le idee ben chiare e mai viene toccata dalle tipica ansia esibizionista da opera prima (non è un caso a questo proposito la volontà di non apparire come attrice). Scelte che permettono al film di costruire un legame solido con lo spettatore che si sente sempre più parte del dramma di Fiona e Grant sposando lo sguardo di quest'ultimo. Un po' come se la presenza fantasmatica di Grant nella casa di cura necessiti di una compartecipazione e di una validazione esterna che ne certifichi l'esistenza, in un luogo dove non esiste la memoria. Perché fa davvero troppo male osservare da soli una perdita irreversibile.