Recensione Harsh Times - I giorni dell'odio (2005)

David Ayer esordisce alla regia con un un film personale e vagamente autobiografico dimostrando, però, evidenti limiti dietro la macchina da presa. Ci pensa Bale con la sua impressionante interpretazione a salvare il film.

Amicizie pericolose

Jim è un veterano della Guerra del Golfo che vive ai margini della società e della legalità: ancora perseguitato da incubi ricorrenti sul suo violento e sanguinoso passato, la sua esistenza si divide tra periodi di felicità trascorsi in Messico insieme all'amata Marta e alle scorribande per i sobborghi di Los Angeles tra sesso, alcool e droga in compagnia dell'amico fraterno Mike. Entrambi ufficialmente sono a caccia di lavoro: Jim alla costante, quanto poco proficua, ricerca di un posto all'interno delle forze dell'ordine, Mike pronto ad accettare un qualsiasi impiego d'ufficio pur di contentare l'ambiziosa fidanzata Sylvia. L'instabilità psichica di Jim, i suoi improvvisi scatti di violenza, finiranno con il trascinare entrambi in un vortice di autodistruzione da cui sarà difficile uscire.

Esordio alla regia per David Ayer, finora sceneggiatore di discreto successo che si è fatto notare soprattutto per gli interessanti Training Day e Indagini sporche, questo Harsh Times - I giorni dell'odio si fa apprezzare soprattutto per un'altra magistrale intepretazione di Christian Bale, che ai ruoli estremi non è certo nuovo, ma continua a stupire per espressività e soprattutto per la disinvoltura con cui riesce a passare da un lato all'altro della personalità schizofrenica del protagonista: dagli sguardi e gesti che mostrano fragilità e dolcezza quando è in compagnia della fidanzata alla folle imprevedibilità di un uomo che è stato trasformato in un killer, pagandone le inevitabili conseguenze. La prova di Bale, però, avrebbe potuto essere ancora più apprezzabile se fosse stata accompagnata da una regia di maggiore spessore e da uno script meno caricato e più credibile: Ayer dichiara di aver realizzato un film personale e basato su esperienze autobiografiche, ed è forse anche per questo non riesce ad evitare una certa prevedibilità delle situazioni e non realizza quanto i dialoghi, con quell'utilizzo quasi spropositato dello slang, suonino occasionalmente poco naturali.

Il degrado degli ambienti circostanti ai protagonisti, il senso di instabilità emotiva di Jim e del suo rapporto con le persone che gli sono vicine come l'amico Mike o l'amore della sua vita Marta, sono tutti elementi che non fanno altro che evocare un'imminente ed inevitabile auto-distruzione, senza però creare mai un vero senso di tensione o immedesimazione; allo stesso modo, viene a mancare quello sguardo socio-politico che caratterizzava altri esempi (eccellenti) dello stesso filone cinematografico - da Taxi Driver a L'odio - che inevitabilmente vanno a collocarsi su tutt'altro livello.

Movieplayer.it

3.0/5