Recensione Paradise: Faith (2012)

Il regista austriaco osserva impietosamente il fanatismo della protagonista e, come accadeva per il film precedente visto a Cannes, non lascia indifferenti, fornendo più di uno spunto di riflessione.

Al di là della fede

Da Cannes a Venezia, le prime due tappe del viaggio di Ulrich Seidl nel suo personale sguardo al concetto di Paradiso, inteso come angolo di realtà in cui trovare le proprie soddisfazioni e certezze. Amore, fede e speranza, un progetto unico che è cresciuto in tre film separati ma contigui per stile ed approccio, il cui secondo capitolo, Paradise: Faith, arriva in concorso alla 69ma edizione del Festival di Venezia.
Ne è protagonista Anna Maria, donna di mezza età che si è rifugiata nella fede alla ricerca della sua idea d'amore e per trovare un senso al dramma della propria vita, resa difficile da un incidente al marito che ha costretto l'uomo sulla sedia a rotelle. Anna Maria approfitta delle ferie per dedicarsi a missioni religiose e catechizzare il prossimo, andando porta a porta a diffondere la fede a Vienna, accompagnata da una statua della Madonna.

Seidl ci immerge fin da subito nel fanatismo della donna (una bravissima Maria Hofstatter, che interpreta la sorella della protagonista del capitolo precedente), mostrandoci la sua flagellazione al cospetto di un crocifisso a parete. E' il primo passo del complesso rapporto di Anna Maria con Gesù Cristo, un rapporto che i diversi momenti del film tratteggiano con completezza, un misto di sottomissione e desiderio, che sfocia anche nel rancore. Un rapporto ambiguo che evolve in modo naturale e giustificato, passando per la scena-scandalo (quella in cui la donna, a letto, ha atteggiamenti più che ambigui con il crocifisso) che ha fatto notizia sulla stampa italiana. Una reazione comprensibile nel nostro paese, che però fa passare in secondo piano i meriti di una pellicola che ha qualcosa da dire e non punta solo sulla scena ad effetto per far parlare di sè.

È il ritorno a casa dopo due anni del marito, un Egiziano di fede mussulmana, che spezza l'equilibrio che la donna si è autoimposta, gettando la sua vita del caos. Inizialmente dettato dalla comprensione e da uno stupito divertimento, l'atteggiamento dell'uomo si fa via via meno tollerante nei confronti degli estremismi della moglie, sfidando le convinzioni e rendendo più radicali le posizioni di entrambi. La quotidianità si riempie di conflitti sempre più duri, fino ad estremismi da entrambe le parti, dalla forzata rimozione dei crocifissi da parte di lui alla segregazione del marito paraplegico da parte di lei.
Il regista austriaco osserva impietosamente, con inquadrature fisse ed esasperate sulla casa dall'arredamento spartano, essenziale e simmetrica, il fanatismo di Anna Maria, dalle flagellazioni alle preghiere al morboso rapporto con Gesù; ma segue la protagonista anche nel suo pellegrinaggio porta a porta, per un susseguirsi di situazioni che riescono anche a divertire per i loro eccessi che risultano grotteschi.

Il tono di Paradise: Faith non è dissimile, infatti, da quello del suo predecessore che seguiva la storia della sorella di Anna Maria, alla ricerca dell'amore in un villaggio turistico in Kenya; d'altra parte l'opera era stata pensata come unica e ne è evidente la compattezza, stilistica e tematica. E, come il film visto a Cannes, anche questo non lascia indifferenti, fornendo più di uno spunto di riflessione; quasi più interessante a posteriori che durante la visione stessa, anche a causa di alcune sequenze che si dilungano oltre quanto necessario per il messaggio che devono comunicare.
Non si tratta di una pecca che rovina il film, che resta tra i più interessanti dei primi giorni di Venezia 2012 e mantiene alta la curiosità di seguire la conclusione della trilogia, di cui sarà protagonista la figlia della protagonista di Paradise: Love e che vedremo con molta probabilità al prossimo festival internazionale.

Movieplayer.it

3.0/5