Recensione The Bourne Supremacy (2004)

Jason Bourne è scaltro, spietato, di poche parole, è affetto da amnesia e questo lo redime. Giudica secondo una morale dettata dalla sua coscienza. E se ci sono dai conti da saldare, lui è il primo a mettere mano al portafogli.

A lezione di spionaggio

Ahi, ahi, sarebbe stato meglio non coinvolgere Jason Bourne. Lui se ne stava tranquillo in India a rimettere in ordine i ricordi di una vita trascorsa ad uccidere per la CIA e loro, i cattivi, cosa fanno? Tentano di far ricadere su di lui le accuse di un duplice omicidio e poi decidono di eliminarlo in gran segreto per chiudere la questione una volta per tutte. Cattivi senza umanità, avidi sostenitori del motto 'oggi a me, domani anche', sprezzanti per le vite umane altrui e ambasciatori di un nazionalismo che non ha bandiera. Tanto russi quanto americani. Ed è questo il sostanziale distacco tra i film di spionaggio del 2000 e quelli in cui la cortina di ferro separava paesi e continenti. La razza umana evolve, gli scenari cambiano, ma l'atmosfera spionistica retrò di The Bourne Supremacy è fitta, asciutta, essenziale e plausibile nella sua costruzione fittizia.

Jason Bourne è scaltro, spietato, di poche parole, l'ironia non gli appartiene, sembra un reduce della guerra fredda ma è affetto da amnesia e questo lo redime. Giudica secondo una morale dettata soltanto dalla sua coscienza. E se ci sono dai conti da saldare, lui è il primo a mettere mano al portafogli.

Il soggetto del film ha subito non poche rielaborazioni rispetto al romanzo Doppio inganno dal quale è tratto. Era invitabile per attualizzare una storia scritta da Robert Ludlum nella metà degli anni '80. L'azione si concentra in Europa, un continente che con la sua varietà di luoghi storici e percorsi politici assicura sempre un certo fascino per le spy story che qui hanno visto i natali. Se The Bourne Identity era ambientato a Parigi, l'intreccio del secondo capitolo si snocciola a Berlino passando per Napoli, Amsterdam, l'esotica Goa in India e concludendosi nella fredda Mosca.

E che bravo Paul Greengrass che sceglie inquadrature non convenzionali pur mantenendo uno stile di regia asettico. In una concitata sequenza di lotta in cui Matt Damon le suona di santa ragione a Marton Csokas percuotendolo con una rivista arrotolata, il pubblico è teletrasportato in mezzo ai due per merito di sgraziate riprese a spalla che incorniciano perfettamente la dinamica della scena. Già perché è ancora Matt Damon il protagonista della storia. Anche lui non male, avvantaggiato dai pochi dialoghi del suo personaggio, incapace però di impedire al suo antagonista Karl Urban di rubargli la scena in più di un occasione. Se la qualità dei film su Bourne dovesse procedere di questo passo, il terzo capitolo, The Bourne Ultimatum, potrebbe essere prossimo al capolavoro.