Recensione Antiviral (2012)

Non si fatica, guardando questo film, a cogliere l'illustre discendenza del regista, che coraggiosamente si avvicina al cinema di suo padre, ne riprende le inquietudini e le ossessioni, aggiornandole però alla sensibilità moderna e filtrandole attraverso un'ottica personale che appare già abbastanza formata.

La nuovissima carne

In un futuro non troppo lontano, l'ossessione feticista per le star ha raggiunto livelli impensabili, al punto da spingere i fans a infettarsi scientemente con i virus che hanno colpito i propri beniamini. C'è una clinica in particolare, quella in cui lavora Syd March, che offre specificamente questo servizio: il cliente può scegliere il virus di un particolare personaggio e farselo inoculare, avvalendosi dei consigli di un consulente specializzato. E', quest'ultimo, proprio il ruolo ricoperto da Syd, che arrotonda poi i suoi guadagni rivendendo clandestinamente i virus a prezzi più vantaggiosi, usando il proprio corpo come veicolo. Quando però l'uomo si infetta con la malattia che ha provocato la morte della popolare Hannah Geist, si trova per la prima volta realmente in pericolo: dietro il virus si scopre infatti un intrigo che coinvolge la stessa clinica, organizzazioni criminali e collezionisti, mentre Syd, preda di allucinazioni e di un deterioramento fisico sempre più devastante, si mette alla disperata ricerca di un antidoto.

E' sempre rischiosa l'opera prima di un "figlio d'arte", e nel caso di una pellicola come Antiviral di Brandon Cronenberg i timori erano più che giustificati. L'esordio alla regia del figlio di David Cronenberg, infatti, presentava da una parte il rischio di un'imitazione pedissequa, di maniera, di temi e motivi che avevano fatto la fortuna dei film del genitore, dall'altra la tentazione di una presa di distanza altrettanto forzata, che avrebbe reso parimenti l'opera costruita e poco personale. Va detto che, guardando questo film, non si fatica affatto a cogliere l'illustre discendenza del regista, che coraggiosamente si avvicina al cinema di suo padre, ne riprende le inquietudini e le ossessioni, aggiornandole però alla sensibilità moderna e filtrandole attraverso un'ottica personale che appare già abbastanza formata. Quello che ne viene fuori è un film che, paradossalmente, appare più cronenberghiano delle ultime opere (pur in gran parte notevoli) di papà David, e che si giova di un'impostazione orgogliosamente indipendente e noncurante delle regole dei vari "generi". Non è questa una caratteristica da sottovalutare, per un esordio così importante, ed è anch'essa segno di un indubbio coraggio: a differenza dei primi film di Cronenberg senior, infatti, Antiviral non si pone il problema di rispettare le regole di un genere specifico, ma anzi mescola in modo libero (con un'irruenza certo "giovane", a volte un po' punk) suggestioni diverse e contrastanti, costruendo un'opera dalla fruizione a tratti faticosa, ma dal fascino indubbio.
Un po' come accadeva in alcune pellicole realizzate dal genitore negli anni '80 (è scontato, ma inevitabile, pensare alla "nuova carne" di Videodrome) il protagonista Caleb Landry Jones subisce un'odissea corporea che lo modifica inevitabilmente anche nella mente; rendendolo preda di un meccanismo più grande di lui che lo utilizza come una pedina, ma che nel frattempo gli fa perdere coscienza del proprio io, mentale e corporeo, contaminando la sua realtà con visioni agghiaccianti, frammenti di mutazioni, incubi febbricitanti in cui il confine tra realtà e allucinazione è sempre più labile. Nella messa in scena della personale discesa agli inferi del protagonista (ben resa anche dalla convincente prova del suo interprete) non mancano visioni cyberpunk e suggestioni che rimandano al cinema di un autore come Shinya Tsukamoto, anche nell'enfasi grafica, senza compromessi o mediazioni, della messa in scena del disfacimento fisico. L'impeto e l'impronta "indipendente" dell'opera non impedisce ad essa di godere di una notevole cura formale: in particolare, è da sottolineare la scelta di utilizzare il bianco come colore dominante negli interni della clinica, con un senso di asetticità che si contrappone agli orrori che si verificano dentro e fuori di essa.
Va detto che l'aver voluto mescolare così tante suggestioni (è impossibile, nel finale, non andare con la mente anche al John Carpenter de La cosa) e l'impeto privo di mediazioni con cui il regista ha scelto di metterle sullo schermo, rendono Antiviral un'opera a tratti anche disunita, poco compatta, ostica da fruire e da metabolizzare. Ma, considerati i rischi, di cui accennavamo in apertura, a cui il giovane Cronenberg andava incontro, il risultato si rivela comunque sorprendentemente positivo, ricco di motivi di interesse e tale da far superare l'inconscio pregiudizio di cui tutti siamo vittime, quando ci troviamo di fronte a un cognome ingombrante. Il futuro potrà dirci che strada prenderà il cinema, tutto da scoprire, di questo interessante nuovo autore.

Movieplayer.it

3.0/5