Recensione La bellezza del somaro (2010)

Un'opera strana, curiosamente priva di un centro, alla deriva e vittima delle sue stesse ambizioni; la descrizione di due generazioni a confronto (con una terza a far capolino) finisce per risolversi in una serie di scenette slegate tra loro, su cui grava una certa convenzionalità di scrittura.

Generazioni (sopra le righe) a confronto

Marcello e Marina sono una coppia moderna, dinamica, progressista. Lui architetto, lei psicologa, una figlia, Rosa, brava a scuola e con cui c'è un rapporto aperto e (finora) privo di segreti; intorno, i vecchi amici del liceo, alle prese con stress lavorativi e familiari, matrimoni falliti o precari e strascichi di rancori; e poi gli amici di Rosa, adolescenti che somigliano sempre più ai genitori, ma che sembrano spesso più equilibrati, o comunque meglio attrezzati per far fronte a una società che va sempre più veloce e rischia di lasciare indietro chi non è in grado di stare al suo passo. Quando Rosa confessa ai genitori di avere un nuovo fidanzato, ma non vuole rivelare nulla su di lui per paura di essere giudicata, i due reagiscono da perfetti genitori moderni, rassicurando la figlia ma provando contemporaneamente un po' di apprensione; l'occasione per la presentazione sarà una festa data dalla famiglia nella casa di campagna in Toscana, in occasione del ponte dei morti, in cui si ritroveranno insieme amici, parenti e conoscenti, una galleria di personaggi che daranno vita a un imprevedibile teatro dell'assurdo. In mezzo, il fidanzato rivelato, Armando, che per lo sbigottimento di Marcello e Marina si rivela essere un uomo di settant'anni.


Cambiano decisamente registro, Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini, per questo nuovo film da loro ideato sei anni dopo il precedente Non ti muovere; e lo fanno puntando alto, scegliendo la strada della commedia grottesca e infarcendo il film di riferimenti cinefili che, per quanto negati dal regista durante la conferenza stampa di presentazione, fanno capolino nella narrazione e caricano l'opera di ambizioni non certo celate. Dall'idea di base mutuata (dichiaratamente) dall'indimenticato Harold e Maude di Hal Ashby al "circo" di personaggi sopra le righe e caricaturali che deve qualcosa, in parti uguali, a quello di Federico Fellini e ai ritratti grotteschi di Marco Ferreri; dalla descrizione delle dinamiche borghesi figlie della tradizione della commedia all'italiana ad aperture surrealiste, specie nelle placide inquadrature dell'animale che dà il titolo al film, che richiamano alla mente le opere di un maestro come Luis Buñuel. Il risultato è un'opera strana, curiosamente priva di un centro, alla deriva e vittima delle sue stesse ambizioni; la descrizione di due generazioni a confronto (con una terza a far capolino) finisce per risolversi in una serie di scenette slegate tra loro, su cui grava una fastidiosa convenzionalità di scrittura. La sceneggiatura voleva forse stigmatizzare l'atteggiamento di una generazione di cinquantenni che sacrificano il loro ruolo di genitori sull'altare di una forzata modernità, trasformandosi spesso in inetti adolescenti (mai) cresciuti, incapaci di comprendere davvero le esigenze dei figli: il ritratto, che vorrebbe essere acido, di genitori che fumano canne e subiscono cazziatoni da ragazzi che li guardano con commiserazione, risulta talmente stereotipato da finire azzerato nel suo potenziale corrosivo, svuotato di spessore e credibilità.

Si fa fatica, nel turbine di una regia nervosa come i personaggi che mette in scena, a cogliere il senso ultimo dell'operazione, ricavandone un messaggio che, tolti tutti gli orpelli cinefili, risulta estremamente semplice, se non banale: una riflessione sulla necessità di vivere il proprio tempo senza rincorrere un presente che sfugge, e sull'importanza di accettare la vecchiaia come realtà di fatto impossibile da nascondere. Sovraccaricato com'è di simbologie superflue, e appesantito nei dialoghi da urla che ricordano (troppo) i peggiori momenti del cinema di Gabriele Muccino, La bellezza del somaro finisce così per vivere di frammenti, di singoli elementi non integrati in una struttura filmica coerente: il volto di un Enzo Jannacci che esprime serenità ed un'enigmatica saggezza, e che dà il meglio di sé in una (non) recitazione che è pura espressione, forse raggiunta anche grazie all'improvvisazione; la simpatia stralunata di un Renato Marchetti trasformato in improvvisato angelo della morte, che ha mandato a memoria il classico di Ingmar Bergman Il settimo sigillo; una governante, interpretata da Svetlana Kreval, vagamente gotica nella sua statuarietà. Gli stessi due protagonisti (all'attore-regista si affianca una poco convinta Laura Morante) non fanno molto per far uscire i loro personaggi dalle gabbie di una sceneggiatura che li costringe in poco attraenti stereotipi. E quando, sui titoli di coda, partono le note di Dreams dei Cranberries, la mente dello spettatore cinefilo non può non andare all'ultima volta in cui abbiamo sentito quelle note al cinema, a chiusura di un film intitolato Hong Kong Express, di Wong Kar-Wai: certo, un paragone del genere è improponibile e non andrebbe neanche pensato, ma quelle note, un po' di rimpianto, inevitabilmente ce lo fanno venire.

Movieplayer.it

2.0/5