Bent Hamer presenta Tornando a casa per Natale

In un hotel al centro di Roma, il regista norvegese ha presentato il suo bel film alla stampa, parlando anche della festività che fa ad esso da sfondo.

In un clima ormai pre-natalizio, fa piacere trovare, tra cinepanettoni, cinepandori e dolciumerie di celluloide assortite, un film come questo Tornando a casa per Natale; una pellicola in cui la festività per eccellenza è vista attraverso lo sguardo tra il divertito e il dolceamaro di un regista come Bent Hamer. Proprio il cineasta norvegese, dopo la proiezione del film, ha presenziato a una conferenza stampa svoltasi in un hotel del centro di Roma, parlando della genesi del film e del suo rapporto con la festa che ad esso fa da sfondo.

Qual è il suo personale rapporto con il Natale? Perché ha scelto proprio questa ricorrenza per il suo film?

Bent Hamer: Si dice che ci sia sempre una donna dietro a un uomo, e in questo caso si è trattato di mia moglie. Lei aveva letto la raccolta di racconti Only Soft Presents Under the Tree di Levi Henriksen, e ha pensato potesse prestarsi per ricavarne un film. Evidentemente ci ha trovato dei punti in comune con i miei precedenti lavori. Così, spinto da lei, ho letto anch'io questa raccolta e l'ho trovata interessante, poi ho dovuto selezionare sei-sette racconti (un paio ho scelto di unirli) su dodici totali, aggiungendo il prologo-epilogo incentrato sul Kosovo. Io non volevo fare un film sul Natale, ma mi serviva la giusta atmosfera per mostrare situazioni che fossero un po' estreme. Tutti i personaggi sono soli, hanno situazioni personali non proprio normali, e lo sfondo della festa fa risaltare queste situazioni. Il mio atteggiamento nei confronti del Natale è ambivalente: ovviamente ne ho tanti ricordi risalenti alla mia infanzia, e anche ora che ho dei figli mi piace ricreare quell'atmosfera in cui si sta tutti insieme, si mangia, si chiacchiera, si scartano i regali... oggi, però, l'aspetto commerciale è preponderante, si entra nell'atmosfera già diversi giorni prima del periodo natalizio vero e proprio, e si arriva a questo un po' esausti.

Qual è stata la difficoltà di legare insieme queste storie?

E' stata una grande sfida. Io ho scritto, diretto e prodotto il film da solo, quindi sono stato io a selezionare i racconti, non ho avuto nessuno che mi dicesse cosa dovevo o non dovevo fare. Non volevo che le storie fossero narrate in sequenza, dovevano intrecciarsi ma non in modo troppo pesante o esplicito: volevo semplicemente che si sfiorassero, e credo che parte della poesia del film stia in questo. Ho dovuto quindi spezzettare le storie in tronconi per poi rimetterle insieme in fase di montaggio; magari in qualche caso ho dovuto riunire pezzi che inizialmente erano separati, ma alla fine il film è venuto sostanzialmente come lo avevo pensato.

Nel film c'è un uso della musica molto sottile ed efficace. Come ha proceduto con la colonna sonora?

Negli ultimi due film ho lavorato sempre con lo stesso compositore, John Erik Kaada. Abbiamo iniziato a lavorare sulla musica proprio nelle fasi iniziali, io gli ho dato lo script e poi abbiamo iniziato a pensare a che tipo di musica potesse adattarvisi. Lui è uno che si preoccupa del film nel suo complesso, non si limita a pensare alla parte di sua competenza: è così che, in generale, tutto lo staff ha lavorato. Entrambi abbiamo pensato a musiche che ci piacessero, che potessero creare adeguatamente l'atmosfera per il film. Lui voleva da me indicazioni più concrete, cosa normale ma anche pericolosa: un'indicazione troppo precisa di ciò che il regista vuole può finire per ingabbiare il tuo lavoro. Bisogna anche stare molto attenti con la musica, perché la musica può sì creare l'atmosfera, ma anche distruggerla: è un lavoro molto complicato. L'atmosfera non si impara né si pianifica a tavolino, ma viene fuori mentre giri il film, quasi magicamente. Per quanto riguarda la canzone dei titoli di coda, John voleva qualcosa che si potesse riferire alla ragazza, che nel film rappresenta la speranza soprattutto per ciò che non fa; così ha chiesto a Maria Mena di scrivere la canzone, e questa è stata effettivamente l'unica parte del film già pianificata.

Nella storia dei due bambini, c'è un cambiamento rispetto al libro: lì, la ragazzina non è né nera né musulmana. Come mai ha deciso di inserire quest'elemento multietnico?

In effetti le mie storie hanno sempre avuto un'impostazione molto locale, anche se poi sono state viste in tutto il mondo e si sono rivelate in realtà storie universali. In questo caso, forse è stato il Natale a spingermi a inserire quest'elemento, forse i ricordi d'infanzia o l'idea di perdono. Comunque ho sentito l'esigenza di raccontare una storia che fosse più universale. Volevo fosse una storia legata soprattutto alle emozioni, e può darsi che abbia pensato che inserire religioni e colori diversi mi avrebbe aiutato a raccontarla meglio. Non ci ho pensato coscientemente, a tavolino.

Cosa può dirci sulle location del film?

All'inizio delle riprese era autunno, quindi abbiamo iniziato a studiare statistiche e condizioni meteorologiche per capire dove ci sarebbe stata una quantità sufficiente di neve. Abbiamo quindi scelto questa cittadina svedese perché ci era stato assicurato avrebbe nevicato, e in abbondanza, ma questo non è successo: loro, però, avevano una sorta di "garanzia sulla neve", hanno detto che potevano procurarcela e così è stato. Ne avevano una buona quantità, visto che la neve gli serve ogni anno per i campionati di sci. Poi, per fortuna, ha anche nevicato e quindi abbiamo usato in parte neve vera, mentre quella ricostruita in digitale è stata solo una minima parte. L'aurora che si vede alla fine, invece, è stata ricostruita in studio, a Berlino.

Il suo film mescola in parti uguali speranza e tristezza. C'è comunque la solitudine che è una caratteristica del suo cinema, che torna un po' in tutti i suoi film.

E' una nostra tipica componente, io vengo da quella che è chiamata "la cintura della vodka e della malinconia". Comunque penso che persone sole ci siano in tutto il mondo, anche a New York: magari da noi è più facile vederle perché la popolazione è minore, e perché la neve accentua questa sensazione. Comunque io trovo che mostrare la solitudine sia un modo per raccontare la realtà della gente, perché la gente sola è più fragile; più incline a mostrare i propri sentimenti. Magari la mia è una visione un po' stilizzata, infatti spesso mi chiedono perché do questa immagine della Norvegia, mi dicono "ma noi non siamo così!"

Quali sono state finora, le reazioni alla visione del film?

Assolutamente positive: l'abbiamo mostrato in tutti i paesi europei tranne che in Gran Bretagna. Sono stato sorpreso anche dalle mie reazioni, a dire il vero: sono arrivato anche alle lacrime rivedendolo, non credevo l'effetto emotivo sarebbe stato tanto forte. Penso la gente abbia apprezzato molto il mix tra umorismo e tristezza che il film offre: poi ognuno sceglie il lato che più gli si confà.

Anche l'albero di Natale, che torna spesso nel film, crea un effetto straniante perché amplifica la solitudine dei personaggi.

Non è solo l'albero, abbiamo lavorato molto sui simboli del Natale, sui suoi colori. E' una festa su cui si possono pensare tante cose, ma che torna ogni anno, e con cui tutti cerchiamo una connessione. Come la si vive dipende dallo stato interiore delle persone, se si hanno dei problemi personali l'atmosfera natalizia finisce per creare esclusione.