Recensione Rabbit Hole (2010)

L'estroso, eccentrico, provocatorio autore di Hedwig e Shortbus John Cameron Mitchell infrange altri tabù in Rabbit Hole, ma lo fa con sorprendente garbo e misura, e lo script di David Lindsay-Abaire conserva la semplicità e l'intimità del dramma, trattenendo le emozioni dei protagonisti così come loro stessi reprimono e nascondono l'un l'altro i propri sentimenti.

Al posto di Danny

Sono passati otto mesi dal giorno della tragica morte del piccolo Danny, e i suoi genitori sono tornati a una parvenza di vita normale. Becca cura la casa, il rigoglioso giardino in cui un tempo risuonavano le risate del suo bimbo, si occupa della sorella minore scapestrata e ora incinta di un musicista appena cacciato dalla ex. Howie si impegna nel lavoro, nel gruppo di supporto, e nelle sfide a squash con il suo migliore amico. La realtà è che, silenziosamente, i due stanno scivolando giù nelle crepe della loro quotidianità, fino a giungere in due universi paralleli in cui non possono più toccarsi: nel suo mondo Becca ritrova Jason, il ragazzo che ha investito Danny e che è roso dal rimorso perché forse superava di un miglio o due il limite di velocità il giorno in cui non vide il bambino inseguire il suo cane in strada; nel suo, Howie contina a trascorrere ore rubate con il suo bambino, guardando filmati e rifiutando di cancellare le tracce di quella breve vita dalla sua, e fa amicizia con una donna che vive da otto anni nel ricordo di un figlio perduto. Eppure laggiù, in fondo alla tana del coniglio, li attende un'epifania che forse servirà loro a cominciare a ritrovarsi.


L'estroso, eccentrico, provocatorio autore di Hedwig - La diva con qualcosa in più e Shortbus - Dove tutto è permesso John Cameron Mitchell infrange altri tabù in Rabbit Hole, ma lo fa con sorprendente garbo e misura. Lo script di David Lindsay-Abaire, ricavato dalla sua pièce teatrale vincitrice nel 2006 di un premio Pulitzer e di quattro Tony Award, si apre al grande schermo inglobando esterni e variando le location, ma conserva la semplicità e l'intimità del dramma, e trattiene le emozioni dei protagonisti così come loro stessi reprimono e nascondono l'un l'altro i propri sentimenti. Ma la semplicità non va confusa con la pochezza, e Rabbit Hole contiene gemme di valore inestimabile che non vogliamo anticiparvi, perché le riconoscerete quando le vedrete. Una, vale la pena di menzionarlo, la dobbiamo alla grande Dianne Wiest, ancora una volta materna e meravigliosa visione; ma non sono da meno i due interpreti principali, un Aaron Eckhart onesto e toccante e una Nicole Kidman che porta sul volto troppe ferite di bisturi, ma non ha perso un briciolo del suo talento.

Chi ha messo al mondo un figlio sa che insieme alla gioia incontenibile di quella presenza nasce l'ombra nera della paura, che accompagna quella piccola, preziosa figura dai suoi primi istanti di vita. La concretizzazione di quella paura è un'ordalia inimmaginabile e inesprimibile a cui ognuno cerca di sopravvivere come può, e Rabbit Hole non pretende di mostrare una via per elaborare il lutto più atroce e andare avanti. Con delicatezza, discrezione e una commozione resa più profonda perché comunicata sottilmente, consegnata con rispettoso riserbo nelle mani dello spettatore, Lindsay-Abaire e Mitchell non fanno altro che raccontare una storia. E in fondo non c'è compito più nobile e coerente che possa assumersi la Settima Arte.

Movieplayer.it

4.0/5